contatore visite

martedì 15 dicembre 2020

L'efficacia del contact tracing: una questione di evoluzione?

Perché in alcuni paesi il "contact tracing", uno dei metodi base per il  controllo delle malattie infettive, ha fallito il suo obiettivo, mentre in altri ha funzionato efficacemente?

Se lo chiede Dyani Lewis in un articolo a sua firma appena pubblicato su Nature, evidenziando come proprio l'utilizzo di questo strumento abbia permesso di spegnere l'epidemia di Ebola che imperversò in Africa tra il 2014 ed il 2016 evitando che si trasformasse in pandemia.

La vulgata secondo la quale tale metodo funziona solo in quelle nazioni dove i diritti del singolo sono limitati - Cina o in altri paesi dotati di forme di governo autoritarie - viene sconfessata dal fatto che il contact tracing ha raggiunto i suoi obiettivi anche in paesi con una lunga tradizione democratica - quali Giappone, Taiwan e la Corea del Sud - mentre li ha mancati in alcune democrazie occidentali - quali USA, Regno Unito e diversi paesi appartenenti all'EU.

Contrariamente a quanto qualcuno potrebbe pensare, il successo (o il fallimento) non è correlato alla percentuale di cittadini che hanno scaricato sul proprio smartphone una app di tracciamento (le varie versioni di "Immuni" utilizzate dai diversi paesi): queste sono senz'altro di aiuto per chi si trovi a dover ricostruire la catena dei contagi, ma la loro diffusione non fornisce una spiegazione del fatto per cui, durante la seconda ondata, il numero di contatti identificati per ogni caso di Covid-19 vari da una media del 17% a Taiwan al 2% del Regno Unito, o all'1.4% della Francia (in alcuni stati degli USA tale percentuale risulta ancora inferiore).
In Vietnam ad esempio per ogni caso positivo riscontrato sono stati identificati - e testati - ben 200 contatti: nessun paragone con la situazione di casa nostra!

Secondo Lewis la ragione di questa enorme discrepanza è da ricercarsi in un intreccio di più fattori, tra i quali un sistema obsoleto e mal finanziato di raccolta dati (in oriente più che le app di contact tracing sono stati utilizzati i dati ricavati dai post di Facebook e di Instagram insieme alle informazioni relative alla posizione dei cellulari disponibili ad esempio sulla piattaforma di Google, quelli che ci permettono di sapere dove abbiamo scattato una foto), e soprattutto un “dep in public trust”: cioè un deficit di fiducia negli apparati pubblici, proprio quelli che dovrebbero governare la crisi ed ai quali dovremmo invece concedere massimo credito.

Una recente indagine condotta in 19 paesi nell'agosto 2020 evidenzia come in Vietnam solo il 4% degli intervistati non sia disponibile a fornire le informazioni sui contatti, rispetto a percentuali del 20-25% riscontrate negli USA ed in Europa.

Insomma, si tratta di un problema di credibilità che interessa le democrazie occidentali.

Perché?

Lewis si affida alle dichiarazioni di 
Robert Groves (direttore dell'US Census Bureau) - "la fiducia dell'opinione pubblica in tutti i tipi di istituzioni sta diminuendo, specie nelle grandi aree urbane dove la coesione sociale è diminuita" - e della ricercatrice dell'università di Harvard Mary Bassett, secondo la quale il fenomeno è riconducibile al fatto che le comunità più colpite dall'epidemia (afroamericana e latinoamericana) sono caratterizzate da una sfiducia di lunga data nei confronti del sistema sanitario pubblico.
La possibilità di esser costretti a rimanere per un periodo confinati nelle proprie case restando così senza reddito (vale soprattutto per i lavoratori autonomi) potrebbe essere un fattore che gioca in questa direzione, e gli scarsi risultati finora ottenuti nell'arginare l'epidemia porterebbero la gente a chiedersi se i governi siano davvero all'altezza della sfida.

Io propongo invece un altro tipo di riflessione.

I fallimenti registrati in altri paesi non sono certo imputabili alla nostra classe politica: le vicende dei vari Conte, Di Maio, Renzi, Zingaretti, Salvini, Meloni e Berlusconi sono ininfluenti nel determinare ciò che succede altrove.
Non possiamo incolpare neppure i soli sovranisti: il negazionismo di Trump, di Johnson, e dei premier di quei paesi EU dove l'ideologia nazionalista ha fatto presa senz'altro ha aggravato gli effetti dell'epidemia, ma non ha preservato le altre democrazie.

Forse la ragione è da ricercarsi altrove, ad esempio nell’evoluzione dei sistemi democratici, anche loro soggetti “all’algoritmo di Darwin”.

La narrazione liberale, la quale certo ammette che nel mondo non tutto vada per il meglio, ritiene che la soluzione per un miglioramento delle condizioni generali consista nel concedere più libertà alle persone: proteggere i diritti umani, garantire a ciascuno la possibilità di votare, instaurare mercati liberi, permettere ad individui, idee e merci di circolare in tutto il mondo nel modo più semplice possibile.
Liberalizzazione e globalizzazione sarebbero in grado di produrre da sole pace e prosperità ad ogni latitudine.

Le crisi succedutesi dal 2008 in poi hanno indebolito questa credenza, prima diffusa tra le élites di ogni parte (democratici e repubblicani, europei e cinesi): hanno infatti fatto la loro comparsa ed iniziato a prender piede fenomeni come il nazionalismo, il sovranismo, le democrazie illiberali.

La mia impressione è che le nostre democrazie si siano evolute in una direzione tale che si sia spostato l'ago della bilancia dal bene della società a quello del solo individuo.
Si pensi a come sia diminuita nell'ultimo secolo 
la disponibilità al sacrificio: dal "qualcuno lo deve pur fare, tanto vale che lo faccia io" al "chi è il responsabile?"

Il progresso tecnologico, insieme all'affermarsi dei diritti del singolo, hanno contribuito a creare negli ultimi 30 anni la falsa convinzione che società e scienza DEBBANO sempre offrire una soluzione a qualsiasi problema si presenti, e se questa tardi ad arrivare ci sia sempre qualcuno cui attribuirne la responsabilità.

E' un tema che ho già affrontato sul mio blog nel post intitolato Nel 1913 Igor Stravinskij ha modificato “la corteccia cerebrale” della cultura europea dove sottolineavo come la tendenza a prevenire ogni possibile incidente (l'antinfortunistica perseguita ad ogni costo) porti inevitabilmente a spegnere quella tendenza naturale al rischio che ha permesso alla nostra specie di prevalere sulle altre e conquistare il globo e lo spazio.
Perché rischiare quando le norme giuridiche stesse mi spingono a rimanere su binari già posati in precedenza?

Abbandonare la prospettiva del rischio porta a concentrarsi su ciò di cui già si dispone, a non metterlo a repentaglio.
A diventare egoisti quando invece l'evoluzione ci ha premiati in quanto specie altruista, capace di cooperare con abnegazione.

Pretendiamo che il contagio venga contenuto dall'azione delle autorità preposte, ma rifiutiamo di sottoporci al test sierologico: la campagna ISTAT della scorsa estate - volta ad identificare la percentuale di italiani già venuti a contatto con il nuovo virus attraverso la selezione di un campione di cittadini da testare - ha registrato una partecipazione pari al solo 50% tra coloro che erano stati chiamati a presentarsi.

Perché dovrei accettare un confinamento in quarantena se non ho sintomi?
Dovrei davvero denunciare tutti coloro che sono venuti a contatto con me, accettando il rischio di un biasimo sociale da parte di chi coinvolgerò?

Ritengo essere questa deriva individualista, assecondata da una falsa convinzione circa le possibilità della tecnologia, la vera causa del fallimento di un metodo forse datato ma da sempre efficace: un'efficacia ancora riscontrabile laddove le democrazie non hanno (ancora) seguito un processo evolutivo nel senso appena illustrato.

https://www.nature.com/articles/d41586-020-03518-4




Nessun commento:

Posta un commento

Elenco posts

 Elenco dei miei posts scritti nel periodo dal 28/3/18 all'11/04/24:                                                    ( su FB ) - vide...