Un autorevole studio appena pubblicato dimostrerebbe che le modalità di diffusione del virus sono differenti rispetto a quanto finora appurato, e potrebbe dunque contribuire al cambiamento delle norme anti-contagio adottate nei nostri paesi.
Il 23 dicembre 2020 è stato pubblicato su ScienceFocus un articolo che riporta le conclusioni di un'indagine condotta dalla dottoressa Müge Çevik in forza alla London School of Hygiene & tropical medicine, virologa e membro del NervTag.
Si tratta di una "meta-analisi", cioè di uno studio che non si basa su osservazioni dirette, ma che invece raccoglie quelle di numerosi altri studi (oltre 79) rivedendone le conclusioni tratte.
Il focus dello studio è la dinamica della carica e della diffusione virale, insieme a quella della contagiosità.
La sorprendente conclusione è che talora le misure in atto - mascherine e distanziamento sociale - possono essere insufficienti oppure del tutto inutili (in quanto il rischio si dimostra a livelli inconsistenti): dunque bisognerà rivedere le linee guida inserendo in certi contesti comportamenti oggi non previsti ed alleggerendo le misure in altre.
La Çevik rileva come tutti gli studi precedentemente effettuati concordino su un fatto: la maggior parte delle infezioni si è sviluppata in luoghi e contesti "al chiuso", ed il rischio di contagio è proporzionale alla durata dei contatti ed al tipo di attività svolto.
Ad esempio mangiare, parlare ad alta voce e cantare sono attività che ci fanno emettere più droplets, le famose goccioline di saliva vettori del virus, provocando un aumento del rischio di contagio se l'ambiente dove ci si trova non sia sufficientemente ventilato.
Aprire una finestra - sui mezzi pubblici, nei bar, nelle scuole come nei ristoranti - è già una soluzione valida per abbatte la probabilità di esser infettati:
"... se trascorriamo molto tempo in uno spazio chiuso l’importante è aprire una porta o la finestra, altrimenti il rischio rimane alto anche se ci laviamo le mani ...” spiega la ricercatrice.
E continua:
"...servirebbero sei cambi d’aria nell’arco di un’ora, ma basta aprire appena la finestra di pochi centimetri per far circolare l’aria necessaria a disperdere le goccioline...".
Quindi sono importanti le dimensioni degli ambienti e quanto sono affollati: specie riguardo ai luoghi dove viviamo.
Isolare un contagiato in una stanza di una casa dove vivono altre persone è meno efficace della soluzione "covid hotels" adottata soprattutto in oriente (ma anche a Roma quando abbiamo avuto i primi contagi su una nave da crociera).
Le evidenze dimostrano che il virus si diffonda "per clusters", in maniera differente ad esempio rispetto all'influenza: nonostante ciò i nostri governi adottano precauzioni come se Covid ed influenza seguissero dinamiche simili.
"... nel caso del Covid non è la maggioranza a trasmettere l’infezione, ma soltanto un numero ristretto di persone che produce ampi focolai...” avverte la Çevik.
A questo proposito mi preme qui ricordare un fatto che ho già richiamato in un mio post, scritto in primavera dopo aver letto "Spillover" di David Quammen, un testo in una cui sezione veniva ricostruita l'epidemia di Sars 2003: la diffusione della Sars era stata allora caratterizzata dalla presenza dei "super untori", persone che avevano contagiato decine se non centinaia di individui.
"...I super-untori infettano molte più persone rispetto a quanto predice il valore R(0).
Il modello matematico, in presenza di super-untori, va in crisi perché non tiene conto delle notevoli variazioni di infettività da individuo ad individuo (vedi l'articolo su Nature nel 2005 firmato da Lloyd-Smith).
La Sars 2003 ha presentato molti eventi super-infettivi: una raccomandazione dell'autore, nel caso di un futuro suo ripresentarsi, è quella di trovare il modo più rapido per indentificare i super-untori così da poterli mettere in isolamento, evitando al resto della popolazione lo stesso trattamento..."
(da "Spillover" di David Quammen).
Proprio su un punto simile insiste la Çevik, mettendo in luce il limite della strategie di contenimento finora adottate dai paesi occidentali (e che potrebbe esser la causa della diversa efficacia della lotta al Covid rispetto ai paesi orientali) e lo sforzo immane richiesto dalle procedure generalizzate di contact tracing (che le rende ad un certo punto ingestibili):
"la maggior parte dei contagi avviene ad opera di individui che hanno infettato molte altre persone, spesso nello stesso momento. Dobbiamo perciò contattare a ritroso e rintracciare questi individui per identificare le dinamiche di trasmissione”.
"...in occidente ricostruiamo i contatti specifici della persona infetta: quando il numero di infetti cresce velocemente, il sistema entra in crisi: invece dovremmo seguire l'esempio della Corea del Sud o del Giappone, dove più che chi è venuto a contatto con il contagiato in ogni occasione ci si concentra sui luoghi chiusi che questi ha frequentato, testando tutti quelli che ci sono passati in un dato giorno... “.
Identificazione dei luoghi ad alto rischio e limitare il contact tracing a chi li ha frequentati nello stesso periodo di un super untore: risultato è un crollo drammatico del numero di persone da testare e quindi una maggior efficienza degli apparati dedicati all'operazione.
Una mappatura dei contesti e dei luoghi più rischiosi permette di effettuare lock downs specifici, modulati con intelligenza.
L'uso di mascherine all'aperto, se non in presenza di un contesto affollato, è di per sé inutile.
Le generalizzazioni imposte dai nostri governi sono dannose perché alla fine la gente non capisce dove siano i rischi reali e ad un certo punto ... stufa, abbassa la guardia.
"... molti hanno paura di andare a far la spesa al supermercato, però non disdegnano di andare al ristorante e vi stanno seduti per ore; due contesti nei quali il rischio di trasmissione è molto diverso.
In un supermarket le persone non trascorrono troppo tempo, gli spazi sono ampi e spesso non si entra in contatto con gli altri clienti.
Nei ristoranti invece si parla e si mangia in gruppi, senza mascherina; tra conoscenti si tende a sentirsi più rilassati ed a tralasciare le misure di sicurezza.
Sono questi i contesti in cui vediamo svilupparsi i cluster ...” racconta ancora la ricercatrice.
L'ultimo argomento affrontato sono gli asintomatici.
Dall'analisi dei diversi studi si evince che ci si dovrebbe concentrare sui soli sintomatici.
"... gli asintomatici risultano circa un 20% del totale degli infetti e con ogni probabilità sono contagiosi solo per 1/3 rispetto a chi ha sintomi o ne sviluppa dopo qualche giorno ...".
Di conseguenza è opportuno, se le risorse sono limitate (numero di tamponi disponibili) come in effetti avviene nei periodi acuti della pandemia, concentrarle su coloro che mostrano sintomi piuttosto che provare a identificare chiunque.
Conclude la Çevik:
"... c’è stata una lunga discussione sull'opportunità di testare anche gli asintomatici; il mio parere è che, compatibilmente con i mezzi a disposizione, vadano testati anche i contatti asintomatici di ogni persona infetta, ma non tutti!
In Giappone ci si concentra su clusters ed ambienti molto ampi: un epidemiologo giapponese spiega infatti che il loro approccio è quello di chi guarda una foresta e prova a scovare i gruppi di vegetazione, non i singoli alberi, mentre in occidente ci facciamo distrarre e disorientare dai singoli alberi”.
Fonte:
https://www.sciencefocus.com/science/coronavirus-misunderstandings-muge-cevik/
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