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martedì 19 settembre 2023

Il passato non è "dietro le nostre spalle" come si è soliti affermare: è invece presente, lì davanti ai nostri occhi, nel cielo stellato.

Dean Buonomano nel saggio “Il tuo cervello è una macchina del tempo” cerca di spiegare il modo in cui l'evoluzione abbia fatto sì che gli esseri umani comprendano il concetto di tempo.

Noi, come altri animali, "comprendiamo" lo spazio attraverso le "place cells" dell'ippocampo, che ci permettono di "navigarlo" e "vederlo".
Insieme con i vertebrati siamo anche in grado di "udirlo": quando sentiamo un suono ne identifichiamo subito la provenienza grazie alla differenza di tempo che trascorre dalla sua percezione tramite l'orecchio destro e quello sinistro.
La somatosensazione ci informa infine sulla posizione e sulla forma degli oggetti, insieme a quella delle nostre membra.
Riguardo al tempo, il discorso è invece più complesso.
Gli animali non comprendono il tempo come facciamo noi: misurano il tempo e prevedono quando certi eventi si verificheranno, ma non colgono la differenza tra passato presente e futuro.
Neppure noi disponiamo di un organo che percepisca direttamente lo scorrere del tempo, tuttavia il nostro cervello è abilissimo nel calcolarne gli intervalli: da quelli di una durata brevissima (utile per orientarsi e capire da che direzione proviene un rumore) sino alla percezione di periodi lunghissimi.
Un'ipotesi che mette d'accordo parecchi neuroscienziati prevede che, per la comprensione del concetto di tempo, il nostro cervello abbia riutilizzato circuiti originariamente incaricati di rappresentare e capire lo spazio: in ogni cultura infatti, nel linguaggio relativo al tempo, si usano metafore spaziali ("una lunga attesa").
Lo scorrere del tempo viene identificato con il movimento: "il tempo passa".
Ciò che invece differisce tra le culture della nostra specie è la posizione nello spazio che assegniamo, rispetto a noi, al passato o al futuro.
Alcune tribù come gli Aymarà delle Ande e gli Yupno (Papua Nuova Guinea), pur prive di una propria scrittura, "spazializzano" il tempo al contrario di quanto siamo abituati a fare:
"il passato è DAVANTI a noi mentre il FUTURO dietro".
La spiegazione di tale uso, che a noi "suona" strano, è più che logica:
"il nostro passato lo conosciamo bene, quindi lo possiamo "vedere", laddove il futuro ci è ignoto, al pari di un predatore che ci sorprenda alle spalle".
La visione di queste due culture è coerente con quanto sappiamo oggi dell'universo.
Poiché la velocità della luce ("c" = celerum) presenta un valore finito, tutto quanto vediamo "è già successo".
Quanto più un oggetto ci appare distante, tanto più i fotoni che ci portano le sue informazioni avranno impiegato del tempo per raggiungere la nostra posizione.
Dunque - se vediamo qualcosa "adesso" - in realtà ne percepiamo l'immagine al tempo in cui i suoi fotoni sono partiti alla nostra volta: immagine che viene costruita dal nostro cervello una volta che sono stati raccolti dai nostri occhi (o strumenti).
Dunque, come correttamente sostengono gli Aymarà e gli Yupno, tutto il nostro passato è lì davanti ai nostri occhi: il sole come era circa otto minuti fa, il centro della galassia con il suo buco nero alcune decine di migliaia di anni prima di oggi, Andromeda un milione di anni fa.
E, se i nostri occhi potessero percepire la radiazione elettromagnetica con lunghezza d'onda nel range delle microonde, ammireremmo l'universo così com'era poche centinaia di migliaia di anni dalla sua nascita.




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