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sabato 20 marzo 2021

L'aspetto fisico dei sapiens nel prossimo milione di anni

Nel post "Il futuro dell'evoluzione sul pianeta Terra." avevo immaginato alcuni possibili scenari per la nostra specie "da qui a qualche millennio".

Interrogarsi invece su quali potrebbero essere le sue caratteristiche fisiche in un futuro molto remoto ("nei prossimi milioni di anni") significa affrontare argomenti complessi ed irti di catene logiche dagli esiti talvolta controintuitivi, preparandosi a fare i conti con il rischio sempre incombente di incorrere in gravi errori causati dalla miopia dei sapiens verso ciò che deve ancora succedere.

La specie cui apparteniamo è infatti stata modellata dall'evoluzione per "prefigurare" eventi non troppo lontani nel futuro, in genere all'interno dell'anno solare.

Come ci spiega il neuroscienziato Dean Buonomano nel saggio "Il tuo cervello è una macchina del tempo", noi sapiens siamo sì in grado di mettere in relazione tra di loro eventi più distanti nel tempo rispetto a quanto fanno gli animali (ad esempio il momento del concepimento con il parto), ma non troppo!

Ad esempio sappiamo con certezza che il fumo fa male, che nel lungo periodo può causare l'insorgenza del cancro al polmone e di conseguenza non è raro porti alla morte il fumatore stesso.

Tuttavia l'estrema diffusione di questa abitudine anche tra chi, per mestiere, ne vede ogni giorno i terribili effetti sui propri pazienti, dimostra il fatto che non siamo in grado di percepire nello stesso modo un legame causale nel quale la distanza tra causa ed effetto si misuri in molti anni rispetto, ad esempio, all'attraversare di corsa un'autostrada o saltar giù da un balcone.

In generale possiamo affermare che la nostra specie tende a derivare una visione del futuro dall'insieme limitato di informazioni a noi disponibili utilizzando un "modello lineare": vedremo tra poco di cosa si tratti e perché esso si dimostri poco efficace qualora l'oggetto della previsione sia distante nel tempo.

Per prima cosa prendiamo in esame alcune previsioni - pubblicate di recente su riviste scientifiche internazionali di ottima reputazione - riguardanti future modifiche anatomiche e fisiologiche di parti del nostro corpo che potremmo osservare solo tra diverse decine di migliaia di anni.

E' stato riscontrato come negli ultimi 10 / 20.000 anni della storia dei sapiens il cervello, che in precedenza non aveva mai smesso di aumentare la sua dimensione, si sia progressivamente rimpicciolito in una misura pari a circa il 10% dell'originale.
Se tale trend dovesse continuare con la stessa intensità, nei prossimi 30.000 anni la nostra specie si troverebbe dotata di un cervello con dimensioni simili a quelle riscontrate dai paleontologi negli scheletri dell' "homo erectus", vissuto oltre mezzo milione di anni fa.

Il motivo di questa "regressione" è attribuibile al fatto che le reti sociali, costruite dai nostri simili all'indomani della rivoluzione agricola, hanno contribuito a liberarli dalla necessità di dover sapere sopravvivere in un ambiente ostile.
Di conseguenza, intere aree dell'encefalo coinvolte nell'espletamento di tali funzioni sono diventate improvvisamente superflue; dato poi che il cervello è un organo che consuma parecchia energia, gli individui nati sprovvisti di tali zone si sono trovati ad avere un vantaggio adattivo, migliori opportunità di sopravvivenza ed a trasferire così i propri geni alle generazioni successive.

L'invenzione della scrittura ha liberato la nostra specie dalla necessità di memorizzare grandi quantità di informazioni (si pensi alla dimensione dei poemi omerici tramandati oralmente); la diffusione della stampa e, ultima arrivata, quella di internet (dove Wikipedia rappresenta un'efficace sistema di delocalizzazione e condivisione della memoria) hanno accelerato questo trend.

Ho trattato questi temi in un'altra risposta ad una domanda su Quora: Risposta di Davide Molina a Essendo che l'essere umano è relativamente giovane come specie, quali evoluzioni psico-fisiche è possibile aspettarsi nel futuro?

L'evoluzione è tutt'oggi sicuramente al lavoro su molte altre parti del nostro corpo: il processo di una nostra ottimizzazione all'ambiente in cui viviamo, ben diverso dalla savana che ha visto nascere ed ospitato la nostra specie per gran parte della sua storia, è appena all'inizio e richiederà per esser completato un intervallo di tempo ben superiore rispetto alla distanza intercorsa tra oggi e l'uscita dall'Africa dei nostri progenitori.

L'assetto della colonna vertebrale, la forma dei nostri arti, la pressione sanguigna, alcuni tendini, la forma dei globuli rossi: l'elenco è lungo, ma, come vedremo tra poco, non è funzionale ad una previsione di lungo periodo.

Alessandro Vespignani nel suo saggio "L'algoritmo e l'oracolo" ci mette in guardia dai rischi connessi al formulare predizioni.
In generale, afferma l'autore, i metodi scientifici a nostra disposizione si basano tutti quanti sull'ipotesi secondo la quale "il futuro è già iscritto nel nostro passato": si tratta di un'affermazione corretta, dal momento che siamo consapevoli di vivere in un universo deterministico, ma che tende a fornirci una falsa sicurezza.
Quando usiamo il termine "passato" riferendoci alla quella sola parte di "informazioni relative a ciò che è stato" di cui siamo a conoscenza, è alto il rischio che ci sia ignoto proprio "quel" passato da cui dipende il futuro che vorremmo predire.

Gli algoritmi predittivi, cui non fanno eccezione i più recenti chiamati "mondi artificiali", si limitano infatti ad individuare, attraverso l'uso di AI, correlazioni tra le serie storiche a disposizione, o tutt'al più a ragionare per comparazione relativamente a fenomeni che presentano un certo grado di similitudine: sostanzialmente confidano che il futuro sia un proseguimento del passato "così come noi lo conosciamo" (vedi nota 1)

Sappiamo tuttavia per esperienza che di frequente le nostre predizioni, alla prova dei fatti, risultano errate, indipendentemente dal grado di raffinatezza dei modelli utilizzati: variabili di cui non si era tenuto conto - o perché il loro effetto era insignificante nel momento in cui la previsione è stata formulata, oppure perché proprio non eravamo a conoscenza della loro esistenza - improvvisamente entrano in gioco e stravolgono gli scenari.

Senza scomodare casi in cui si manifesti un "cigno nero" (vedi il saggio omonimo di Nassam Nicholas Taleb), oggi spesso invocato quale giustificazione al fallimento dei nostri modelli predittivi, è facile comprendere come l'utilizzo di tecniche di calcolo della probabilità in situazioni di incertezza portino a compiere errori, forse evitabili con l'uso del buon senso (la "regola del pollice" di cui ci parla Gerd Gigerenzer nel saggio "Imparare a rischiare").

La teoria del caos infine ci ha insegnato che, pur dominati da fenomeni deterministici, l'evoluzione di sistemi in partenza molto simili può dar adito, nel tempo, a risultati estremamente diversi.
L'impossibilità di conoscere con estrema precisione uno stato iniziale del sistema comporta la presenza di piccole differenze che, causa la non linearità dei modelli caotici, possono condurre a scenari completamente diversi (vedi 
nota 2).

Effetti di questo genere sono riscontrabili quotidianamente nella scienza delle previsioni del tempo: le equazioni deterministiche che derivano le condizioni di umidità e pressione atmosferica permetterebbero in linea di principio, conoscendo le condizioni iniziali di un sistema, di ricavare il tempo atmosferico in qualsiasi istante futuro.
L'impossibilità pratica di disporne misurazioni precise (anche per effetto del principio d'indeterminazione di Heisenberg) ci condanna ad un margine di errore che cresce rapidamente in proporzione alla lontananza nel tempo.

Date tutte queste premesse, esaminiamo gli elementi di criticità relativi alle previsioni sul futuro circa le "caratteristiche fisiche" dei sapiens.

L'evoluzione.
Il nostro corpo fisico (l' "hardware") viene modellato in tempi lunghissimi dagli effetti dell'adattamento all'ambiente in cui ci si trovi a vivere.
Quando leggiamo previsioni sulle modifiche della colonna vertebrale, del volume del cervello, della forma dei globuli rossi (e così via), l'ipotesi che viene data come scontata è che l'ambiente in cui vivranno i nostri discendenti sarà all'incirca simile a quello in cui viviamo oggi.

La nostra specie ha dimostrato una naturale tendenza ad occupare ogni spazio disponibile sul pianeta laddove le condizioni del clima non risultino proibitive (vedi nota 3).

Dopo aver colonizzato il globo, la tendenza sarà quella di espandersi al di fuori del nostro pianeta - e dunque del nostro habitat, esattamente come fecero i nostri progenitori quando abbandonarono l'Africa - e trasformarci in una specie multi-planetaria, occupando zone del sistema solare dove l'ambiente per forza di cose sarà estremamente diverso rispetto al nostro: di conseguenza le pressioni evolutive cambieranno direzione ed intensità.

In un milione di anni, se prima non saremo stati spazzati via da una catastrofe naturale o provocato da noi stessi, avremo senz'altro avuto l'occasione (e la tecnologia necessaria) per colonizzare Marte e quei corpi del sistema solare dove le condizioni di vita non si riveleranno troppo proibitive.

L'ingegneria genetica nel frattempo potrebbe aver giocato un ruolo chiave, quale ad esempio consentire alla nostra specie di adattarsi ad altri ambienti senza la necessità di "terraformarli".

Una lettura sull'argomento molto interessante è il saggio “Vita 3.0” scritto da Max Tegmark nel 2018.

L'autore parte dalla considerazione del fatto che ad oggi non esista consenso - da parte della comunità scientifica - sulla definizione del fenomeno che genericamente indichiamo con il nome di "vita" (si veda in proposito la risposta che mi ha fornito il fisico Stephen Webb al seguente link: C'è vita intelligente nel nostro universo? La risposta del fisico Stephen Webb alle mie obiezioni.).

Pertanto Tegmark, nel formulare la propria, sceglie di adottare un criterio molto inclusivo (estensibile ad esempio alle intelligenze artificiali del futuro) che suona così:

"vita come processo in grado di conservare la propria complessità e replicarsi".

Ad esser replicata infatti non è la materia, costituita da atomi, ma l'informazione che è invece costituita da bit, ed è in grado di specificare come gli atomi debbano configurarsi (disporsi) per esser in grado di conservare la propria complessità il tempo sufficiente a replicarsi.

Pensiamo a come avviene la replicazione di una forma di vita primordiale: un batterio è in grado di replicare una copia del suo "software", il DNA, senza che in questo processo vengano creati nuovi atomi.

Quando un batterio crea una copia del suo DNA, un gruppo di atomi - già presenti in precedenza nell'ambiente - viene disposto nella stessa configurazione dell'insieme originale: si copia cioè soltanto 
l'informazione (a conferma di ciò in un'altra parte del testo l'autore ci ricorda come "noi stessi non siamo nient'altro che cibo riconfigurato").

"Possiamo pensare la vita " - aggiunge Tegmark - come "un sistema di elaborazione dell'informazione in grado di auto replicarsi, e la cui informazione (il software) determina sia il suo comportamento, sia il disegno del suo hardware".

Di pari passo con il nostro universo, che si è evoluto da forme semplici (il plasma di quark unica presenza fisica nei primi tempi dopo il big bang) alla variegata struttura attuale (costituita da atomi di diversa natura e proprietà che assemblandosi hanno formato stelle, pianeti, buchi neri e galassie) anche la vita è diventata gradualmente più complessa.

La ragione di questo "aumento di complessità" è da ricercarsi ancora una volta nell'evoluzione che premia le forme di vita sufficientemente complesse così da prevedere e sfruttare le regolarità del proprio ambiente.

L'aumento di complessità dell'ambiente farà dunque evolvere forme di vita progressivamente più complesse ed intelligenti; queste a loro volta contribuiranno esse stesse all'aumento di complessità dell'ambiente, che selezionerà tra le forme di vita in competizione soltanto quelle che risultino più complesse ed intelligenti delle altre, in un circolo vizioso il cui risultato (temporaneo) è la complessità dell'attuale ecosistema terrestre.

In funzione di quanto spiegato sinora Tegmark divide le forme di vita in 3 classi (tra le quali esistono naturalmente forme intermedie):

Dal momento della sua comparsa sul nostro pianeta (circa 4 miliardi di anni fa), il fenomeno "vita" ha subito visto aumentare il proprio grado di complessità.

Non molto tempo dopo la comparsa delle prime cellule organiche, grazie a mutazioni casuali, comparvero i primi batteri in grado di reagire all'ambiente circostante ("agenti intelligenti", secondo la definizione informatica).

Dotati (dal caso) di sensori utili a raccogliere informazioni sull'ambiente esterno - ad esempio il grado di concentrazione degli zuccheri di cui si nutrono -, risultano in grado di elaborarle e reagire in conseguenza, anche se dotati di un software semplicissimo, magari costituito da una sola istruzione del tipo: "se ADESSO la concentrazione di zuccheri risulta inferiore rispetto a PRIMA, inverti la direzione verso cui ti stai muovendo".

Questa forma di vita molto semplice viene definita da Tegmark "Vita 1.0".

La sua forma fisica (harware) ed il complesso di istruzioni che le permette di sopravvivere e replicarsi (software) stanno nel DNA già al momento della formazione di un suo individuo: al momento della nascita del nuovo batterio esso sa già cosa deve fare, 
non necessita di esser istruito.

Ogni miglioramento delle loro performances è il risultato di mutazioni casuali, cosa che richiede tempi lunghissimi.

Vita 1.0 (stadio biologico) è il complesso di forme di vita per le quali sia l'hardware che il software derivano dall'evoluzione anziché da un progetto.

Partendo da forme elementari come quella dei batteri, e passando per molteplici fasi intermedie, l'evoluzione ha prodotto il fenomeno "vita 2.0", di cui noi sapiens costituiamo l'unico esempio finora noto.

Non siamo ancora capaci di manipolare il DNA così da poter ottenere esseri completamente diversi dai propri genitori, quali uomini capaci di respirare sott'acqua o con una forza muscolare simile a quella dei nostri cugini primati.

Al momento della nostra nascita, non siamo in grado di compiere quasi nessuna delle azioni che ci risulteranno familiari pochi anni dopo: riconoscere oggetti e persone, parlare, leggere, scrivere, camminare, calcolare, cantare, e molto altro.
Svolge in tal senso un ruolo essenziale "
l'apprendimento".

Il "software" di cui ci ha dotati l'evoluzione al momento del concepimento (quello codificato nel nostro DNA) è molto "essenziale", tant'è che non saremmo in grado di sopravvivere se non ci fosse un adulto a badare a noi ed alle nostre necessità per un periodo non breve.

Questo software viene implementato con "pacchetti" durante la nostra vita, ed infine - a differenza con quanto succede con i batteri - risulterà "personalizzato" per ognuno di noi.
I primi pacchetti saranno una base comune condivisa con molti altri sapiens (gli insegnamenti dei genitori e delle scuole dell'obbligo), ma quelli successivi dipenderanno dalle nostre scelte: potremo decidere quali interessi perseguire, la professione che vorremo intraprendere, quali lingue imparare.

Siamo cioè in gran parte artefici del progetto del nostro software.

Vita 2.0 (stadio culturale) è quindi definibile come il complesso di forme di vita per le quali l'hardware è ancora frutto dell'evoluzione, ma il cui software è in gran parte progettato.

Un alto livello di intelligenza richiede la disponibilità di un grande hardware e di un grande software: gran parte del nostro hardware si "aggiunge" DOPO la nascita (durante il processo di crescita): se così non fosse, le nostre dimensioni finali sarebbero limitate all'ampiezza del canale dell'utero, ed il nostro cervello rimarrebbe di dimensioni limitate, incapace di gestire più di una quantità limitata di informazione.

Il DNA conserva circa un gigabyte di informazioni, quando le sinapsi del nostro cervello, nel momento in cui questo ha raggiunto la fase finale del suo sviluppo, possono immagazzinare tutto quello che conosciamo e le abilità apprese sotto forma di circa 100 terabyte di informazione.
Ecco la ragione per la quale, al momento della nascita, la nostra capacità di immagazzinare le informazioni è insufficiente, e ci vogliono anni per sviluppare quelle abilità che caratterizzano l'età adulta.

Progettare il proprio software fornisce alla vita 2.0 non solo più "intelligenza", ma soprattutto una caratteristica molto importante: la flessibilità.
I batteri che si trovano a frequente contatto con gli antibiotici solo dopo molte generazioni sviluppano una resistenza, ma un singolo batterio non muta il proprio comportamento; un uomo che si avvicini al fuoco scottandosi, eviterà questo comportamento in futuro senza aspettare i tempi dell'evoluzione del DNA.

A livello di gruppo poi, seppur negli ultimi 50.000 anni il DNA sia sostanzialmente rimasto simile, il complesso di informazioni utili alla nostra specie si sono accumulate, e negli ultimi secoli si è assistito ad una esplosione della loro dimensione.

Le informazioni - tramite gli strumenti di comunicazione - possono passare da individuo ad individuo: esser copiate da un cervello all'altro, permettendo la loro sopravvivenza dopo la morte del cervello originale.

L'invenzione della scrittura ha permesso di superare la barriera fisica relativa alla quantità massima di informazione memorizzabile da un singolo cervello: una specie di memoria di massa esterna cui attingere quando serve.

Lo sviluppo di tecnologie quali internet ha permesso invece di migliorare l'efficienza nella memorizzazione e recupero delle informazioni, e ne ha reso gran parte accessibile a chiunque disponga di una connessione.

La sempre più rapida "evoluzione culturale del nostro software condiviso" (con gli altri membri della nostra specie) ha reso irrilevanti gli effetti dell'evoluzione biologica.

Naturalmente esistono "versioni" intermedie tra la vita 1.0 e la vita 2.0: la maggioranza delle specie che compongono il regno animale.
Numerosissime specie sono infatti dotate di caratteristiche simili alle nostre, quali ad esempio "la capacità di apprendere e tramandare ciò che si è appreso alle generazioni successive", anche se il mancato sviluppo di un linguaggio articolato ne limita l'effetto (vedi l'intervista al neuroscienziato Giorgio Vallortigara: 
https://www.youtube.com/watch?v=W8h-_Kq-UR8 )

Arriviamo infine alla definizione di quella che Tegmark chiama "vita 3.0", o forme di vita "completamente padrone del proprio destino":

Vita 3.0 (stadio tecnologico) è il complesso di forme di vita in grado di progettare non soltanto il proprio software, ma anche il proprio hardware.

Ad oggi, per quanto ne sappiamo, non esiste nell'universo alcuna forma di vita in grado di esser classificata in questo gruppo; sicuramente non sul nostro pianeta.

Negli ultimi decenni la nostra specie ha iniziato a progredire verso una forma che potremmo definire "vita 2.1".
Siamo ora in grado di effettuare qualche aggiornamento del nostro hardware non troppo rilevante: protesi, pacemakers, potenziatori di organi danneggiati.
Tutti indizi che ci fanno pensare ad un "salto" verso la vita 3.0 in un futuro non troppo lontano.

Un'ultima considerazione.

L'universo ha 13.8 miliardi di anni.
Vita 1.0 è comparsa sulla Terra circa 4 miliardi di anni fa, dopo ben 9.8 miliardi di anni dal big bang.
Vita 2.0 (i sapiens) sono comparsi circa 100.000 anni fa.
E' opinione di molti ricercatori che la Vita 3.0 possa affermarsi prima della fine del secolo.

Alla luce di tutto ciò si capisce come ipotizzare che il nostro aspetto tra un milione di anni possa ancora esser determinato dall'evoluzione del DNA umano perda completamente significato.
In un milione di anni, se non ci autodistruggeremo prima, lo step "vita 2.0 - vita 3.0" sarà già stato archiviato da tempo.
Saremo dunque noi a decidere quale debba essere il nostro aspetto, e non è detto che i sapiens (o qualunque cosa essi decideranno di diventare) si assomiglieranno ancora tra di loro come accade oggi.

Per dare un'idea dell'enormità delle possibilità offerte da "vita 3.0", ricordo che il DNA di tutte le specie viventi sulla terra è molto simile, a dispetto di forme diversissime (un batterio, un polpo, un pesce, un uccello, un uomo).

La possibilità di assemblare la materia organizzandola in forme complesse "a prescindere dal DNA" apre un ventaglio di possibilità vertiginoso.

Gli eredi dei sapiens potranno mutare il proprio corpo a seconda dell'ambiente in cui decideranno di vivere: coesisteranno individui in grado di comunicare e scambiarsi informazioni con forme estremamente diverse l'uno dall'altro.

Potrebbero decidere di trasformarsi in una specie dotata di una "forma fluida" in grado di mutare nel tempo a seconda delle necessità contestuali: oggi per muoverci in ambienti non adatti alla vita usiamo astronavi e batiscafi, indossiamo tute spaziali, respiratori subacquei, tute ignifughe.

Potendo riprogrammare il nostro hardware tutto ciò non sarà più necessario.



Note:

1) La tecnica dei "mondi artificiali" è più efficace delle precedenti in quanto prevede frequenti aggiornamenti dei dati rilevati che vanno a sostituire le previsioni più vicine nel tempo, cosicché l'orizzonte temporale della previsione si accorci progressivamente rendendola più precisa).

2) Esiste una dimostrazione del fatto che sia impossibile fare predizioni accurate sul futuro, pur disponendo di tutte le informazioni relative allo stato inziale di un sistema in una regione determinata.
Vedi in merito il testo di Anthony Aguirre "Zen e multiversi"

3) In realtà oggi esistono presidi di sapiens anche ambienti estremi, quali il continente antartico ed i deserti

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