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lunedì 11 gennaio 2021

Affrontiamo il problema della definizione di cosa sia la coscienza da un'altra prospettiva.

Riprendiamo il discorso sulla coscienza trattato nell'ultimo post (Il mistero della coscienza, i CCN ed i pazienti sottoposti a "split brain") affrontandolo da un diverso punto di vista.


Ancora una volta la mia risposta ad un quesito formulato da un utente di Quora può fare da traccia alla riflessione.

Ecco il testo completo della mia risposta alla domanda "Cosa ci dice la scienza sul perché il cervello è in grado di pensare?" che ho postato su Quora il 6 ottobre 2020.


Ad oggi la scienza non è in grado di dare una risposta a tale domanda: non sappiamo infatti spiegarci perché siamo in grado di avere esperienze soggettive.

Manca una definizione di cosa sia la “coscienza” (la "consciousness", la consapevolezza di se stessi).
Un campo nel quale oggi si muovono molti ricercatori in quanto eventuali futuri progressi potrebbero comportare conseguenze in molti ambiti.

Vediamo lo stato dell'arte.

Iniziamo col chiederci quale sia la differenza che passa tra un essere umano alla guida di una utilitaria ed una IA alla guida di un’auto autonoma: entrambi ricevono informazioni dall’esterno (tramite i sensi l'uno, i sensori l'altra), le processano e decidono come e dove dirigere il proprio automezzo.

Alla domanda “sono entrambi coscienti?” rispondiamo “certo che NO!”, altrimenti cadremmo nel paradosso evidenziato da Yuval Noah Harari in "Homodeus":

“... se giudichiamo irrilevanti le esperienze soggettive ne consegue che dobbiamo spiegare perché consideriamo stupro e tortura come azioni riprovevoli senza far riferimento alla soggettività delle vittime: si tratterebbe infatti solo del movimento di particelle elementari in ossequio alle leggi della fisica...”.

Secondo il fisico Max Tegmark (vedi il saggio “Vita 3.0”) la differenza sta proprio nella capacità degli esseri viventi di provare un'esperienza soggettiva.

Guidando un automezzo infatti abbiamo esperienza di colori, suoni, emozioni; in aggiunta a ciò che possiamo definire un “senso di sé”.
Alla IA che guida il mezzo autonomo manca soprattutto quest’ultimo.
Dobbiamo poi chiederci se "fare esperienza del guidare" sia per noi un qualcosa di facoltativo: spesso infatti conduciamo l'auto per lunghi tratti in “modo automatico” pensando ai fatti nostri, cioè senza esserne pienamente coscienti.
Poi improvvisamente qualcosa d'insolito desta la nostra attenzione e diventiamo coscienti di ciò che stiamo facendo.

Quando sogniamo rispondiamo a stimoli creati dal nostro cervello, cioè che possono non provenire dalla realtà esterna: siamo pertanto in qualche modo coscienti. Al risveglio potremmo ricordare come abbiamo agito nel sogno, ma non cosa sia successo intorno a noi nel mondo reale.

Durante il sonno profondo invece non abbiamo alcun tipo di coscienza, così come quando siamo sotto anestesia. Nessuna esperienza soggettiva!

Tegmark ci ricorda che dal punto di vista della fisica una persona cosciente (o un essere vivente che abbia coscienza di sé) è semplicemente “cibo riconfigurato”: poiché stiamo parlando della riconfigurazione di un gran numero di quark ed elettroni, si tratta di trovare un metodo per stabilire quali configurazioni di particelle siano coscienti e quali invece non lo siano.

L'autore, rifacendosi al filosofo australiano David Chalmers,  individua una “piramide dei problemi” legati allo studio della coscienza al cui livello superiore si può accedere solo risolvendo il problema al livello inferiore.


Vediamo i vari livelli:

* problema facile: l’intelligenza. Cioè in che modo il cervello elabora le informazioni (come funziona l’intelligenza).
Lo sviluppo delle tecnologie connesse con l'Intelligenza Artificiale ha dimostrato come possa esistere intelligenza senza la contemporanea presenza della coscienza (non sono necessarie esperienze soggettive, come invece si credeva sino a pochi decenni fa). 
Siamo in grado di verificare le diverse teorie ad essa relative con simulazioni.

* problema molto difficile (PHP): visto che siamo tutti quanti fatti della stessa materia che costituisce ogni cosa nell’universo, dovrebbero dunque essere le proprietà fisiche (cioè la configurazione specifica delle particelle) a determinare cosa sia cosciente e cosa no.
Quindi, quali sono queste particolari proprietà fisiche a fare la differenza tra sistemi coscienti e non coscienti?
Rispondendo a questa domanda potremmo identificare ad esempio quali AI siano coscienti (un problema sentito da Harari che non esclude del tutto la possibilità che le AI lo possano divenire SENZA che noi ce ne accorgiamo); oppure quali pazienti arrivati in coma in pronto soccorso senza essere in grado di rispondere a stimoli siano tuttavia coscienti (sindrome Locked-in).
Possiamo verificare le diverse teorie ad essa relative solo con dispositivi che consentano la lettura del cervello.

* Problema ancora più difficile (EHP): in che modo le proprietà fisiche determinano che cosa sia l’esperienza?
I "qualia” sono i mattoni fondamentali della coscienza: ad esempio il rosso di una rosa, il suono di un pianoforte, il profumo di un piatto o il dolore di una puntura.

In questo ambito le teorie sono soltanto parzialmente verificabili.

* Problema davvero difficile (RHP): perché qualcosa è cosciente?
Esiste un motivo per il quale una configurazione di materia diventa cosciente o è solo per caso?
Si tratta di un ambito nel quale le teorie non risultano verificabili.

Tegmark si chiede quindi se la coscienza sia fuori dalla portata della scienza.

Il principio enunciato negli anni '60 dal filosofo della scienza Karl Popper stabilisce che il ruolo della scienza debba essere quello di mettere alla prova le teorie rispetto alle obiezioni: qualora sia impossibile mettere alla prova un enunciato ne consegue l'impossibilità di falsificarlo, dunque NON può trattarsi una teoria scientifica.

Dobbiamo dunque arrenderci all'impossibilità di definire in modo completo cosa sia la coscienza?
La risposta che Tegmark fornisce in qualità di fisico è un "NO" secco:
"... anche qualora OGGI una teoria scientifica possa esser messa alla prova solo per alcuni ambiti, ma non per tutti, non è detto che DOMANI non troveremo i mezzi per estenderne il dominio...".

Basti pensare a Relatività Generale e Teoria dei Quanti: ognuna delle due è verificabile, ma solo in ambiti diversi (la "teoria del tutto" che dovrebbe unificare le due descrizioni - una valida per i fenomeni macroscopici, l'altra per quelli a dimensione atomica - non è ancora stata elaborata).

Dunque potremmo definire "scientifica" una teoria che preveda quali sistemi fisici siano coscienti purché sia in grado di prevedere quali dei nostri processi cerebrali lo siano.

Più saliamo in alto nella piramide dei problemi, più si ingarbuglia la loro confutabilità: come mettere alla prova una teoria che prevede come tu faccia l’esperienza soggettiva del colore rosso?
O spiegare il perché esista una coscienza?

Ancora una volta Tegmark ci invita a non perderci d’animo: Galileo aveva ricavato le formule per prevedere le traiettorie di caduta di un acino d’uva come di una castagna, ma queste non spiegavano il perché una è verde e l'altra marrone.
Solo tre secoli dopo Maxwell ne scoprí il motivo!

Abbiamo già evidenziato come molte elaborazioni svolte dal nostro cervello avvengano in modo non cosciente (ad esempio durante gran parte del periodo passato a guidare) e che siano le situazioni insolite a riportare il flusso costante di dati in arrivo al cervello dai nostri sensi all’attenzione della coscienza, come il presentarsi improvviso di un ostacolo sulla strada.

Si tratta quindi di capire dove si localizza la coscienza nel nostro corpo (dovremmo forse dire dove si “incarna”).

Negli anni 90 Francis Crick (uno degli scopritori del DNA) ed il suo alunno Christof Koch scrissero un saggio sui “Correlati Neurali della Conoscenza” (NCC) chiedendosi quali processi cerebrali corrispondessero ad esperienze coscienti.

Le illusioni ottiche dimostrano che l’interpretazione dei segnali ricevuti dalle due retine dei nostri occhi avviene nel cervello, non a livello locale. Dunque è lì che deve esser localizzata la sede dei NCC.

Per capire in che zona sia localizzata la coscienza i ricercatori confrontano quello che fanno i neuroni in situazioni in cui tutto è identico tranne l’esperienza sensoriale: ad esempio durante la guida in modo automatico e poi durante la guida in modo cosciente.
Se alcune parti di cervello si comportano in modo diverso nei due contesti vengono identificate come NCC.

Sembra un compito facile, ma nonostante siano passati trent'anni da questa intuizione, ancora oggi non si riesce ad indentificare con chiarezza quali siano le parti del cervello responsabili della coscienza.

Altra caratteristica della coscienza è costituita dal fatto che richieda un "tempo di elaborazione" maggiore rispetto alle reazioni “non coscienti” (talvolta indicate come "euristiche").

I tempi di reazione cosciente ad uno stimolo sono stati misurati nell’ordine di un quarto di secondo.

Benjamin Libet - e più di recente John D. Hayes - hanno indagato l'effettivo "potere" della coscienza sul nostro comportamento, e dimostrato che talora decisioni che riteniamo attribuibili al libero arbitrio siano in realtà prese prima del momento nel quale "diventiamo coscienti di averle prese".

Vedi il post che avevo scritto in proposito qui sul blog:
"Libero arbitrio e libera volontà" 
e la copia dell'articolo di John D. Hayes che mi ha fatto pervenire il fisico Carlo Rovelli nell'estate del 2019: 
"Unconscious determinants of free decisions in the human brain" 


Più di un progresso nella ricerca di una teoria della coscienza è conseguenza dello sforzo di combattere il "bias antropocentrico": con "coscienza" ci riferiamo infatti a fenomeni con gradi diversi, dal piccolo roditore sino a noi.

Perché dunque non pensare che altre forme di vita non naturali possano sviluppare una coscienza?

Ricerche riferibili non solo al cervello fisico ma pure alle AI estendono il concetto NCC a PCC (Physical Correlates of Consciousness), cioè configurazioni di particelle in movimento che siano coscienti.

Tegmark introduce a tal fine il concetto di "proprietà emergente", quale ad esempio "l’esser bagnato" per un liquido.
Un piccolo insieme di molecole d’acqua non è “umido”, mentre lo è un grosso insieme di molecole H2O.
Cosa differenzia i due casi così da determinare l'insorgenza dell'umidità?
L' "esser bagnato" è un fenomeno che emerge solo superata una certa soglia di numerosità: insomma, quando la somma è maggiore delle parti allora ci troviamo di fronte ad un fenomeno emergente.

La coscienza potrebbe costituire un fenomeno emergente laddove la presenza di cellule nervose superi una certa soglia.

Ma non è così semplice: la coscienza sembra infatti essere un fenomeno intermittente!

In questo momento sono cosciente; se tuttavia cado in un sonno profondo senza sogni smetto di esserlo, e questo avviene semplicemente riconfigurando le particelle che mi compongono.
Quando mi sveglio torno ad esserlo, ma se vengo congelato la mia coscienza potrebbe sparire per sempre.

Per fornire una spiegazione Giulio Tononi, neuroscienziato italiano, ha provato a proporre l'adozione di una grandezza (phi, φ) detta "informazione integrata": in soldoni la misura di quanto sanno, l’una delle altre, parti diverse di un sistema.

Tononi ha sviluppato una teoria della coscienza definita “teoria dell’informazione integrata” (IIF).

Secondo questa teoria la coscienza è il modo in cui “si percepisce” l’informazione allor quando l’elaborazione delle informazioni avviene in modo integrato (cioè quando il valore di φ è grande).
Il sistema cosciente deve esser integrato in un tutto unificato, altrimenti si osserverebbero diverse coscienze separate (studi su individui colpiti da danni neurologici lo confermano, vedi letteratura inerente di Oliver Sacks).

Se una parte cosciente del cervello non può comunicare con le altre, allora quelle non possono esser parte della sua esperienza soggettiva.

Questa teoria è stata in parte testata tramite l’utilizzo di EEG: il dispositivo ha predetto correttamente lo stato dei soggetti sottoposti all'esperimento, "cosciente" quando erano svegli o sognavano, "incosciente" se sottoposti ad anestesia o in stato di sonno profondo.
Esperimenti eseguiti hanno anche permesso di scoprire lo stato cosciente in due pazienti affetti dalla sindrome Locked-in, riguardo ai quali i medici cui erano affidati non erano in grado di formulare un giudizio.

Proprio su questo argomento ho assistito ad una conferenza - tenuta a Milano in occasione del Focus festival 2019 - “intelligenza e coscienza: viaggio nei circuiti del cervello" di Marcello Massimini.
Ho scattato fotografie alle slides proiettate: sono visionabili al seguente link scorrendo verso il basso sino alla 7^ conferenza:

Focus Live 2019 - 4^ giorno


Arriviamo infine al punto in cui dobbiamo chiederci come un grumo di materia possa avere un’esperienza soggettiva, cioè in quali condizioni sarà in grado di:

* ricordare

* computare

* apprendere

* fare esperienza

In che modo cioè la coscienza può esser percepita come non fisica se di fatto è un fenomeno fisico?

Secondo Tegmark il motivo è da ricercarsi nel fatto che questa sia molto indipendente dal suo substrato fisico, la materia, della quale è uno schema. Possiede cioè proprietà indipendenti da esso.

Se la coscienza è il modo in cui "si percepisce l’informazione quando viene elaborata in determinati modi", deve essere indipendente dal substrato: è importante cioè soltanto la "struttura dell’elaborazione dell’informazione", non la "struttura della materia che compie l’elaborazione"!

Come affermato all'inizio oggi manca ancora una teoria della coscienza che sia in grado di essere invalidata (e quindi superare lo stato di congettura).

Giulio Tononi (vedi il suo saggio “From the phenomenology to the mechanisms of consciousness: integrated information theory 3.0”) ha proposto il metodo che abbiamo appena descritto, ma finora il traguardo non è stato raggiunto.

Nel 2020 Donald Hoffman ha pubblicato un saggio (“L’illusione della realtà”) dove suggerisce l'adozione di un approccio innovativo: partendo da recenti risultati raggiunti dalla biologia evoluzionistica ed appoggiandosi ad una nuova linea di ricerca in fisica che tenta di conciliare teoria dei quanti e relatività sacrificando la realtà oggettiva (“lo spazio-tempo è oramai condannato”, Nima Arkani-Hamed, Susskind e ‘t Hooft, o l'interpretazione data da Carlo Rovelli in "Helgoland") Hoffman ha sviluppato quella che definisce come "TIP", una teoria dell’interfaccia percettiva.

Secondo Hoffman noi sapiens non siamo in grado di percepire la realtà oggettiva - mai! - perché l'evoluzione non ci ha selezionato per questo fine (per una spiegazione in dettaglio vedi la pubblicazione di Chetan Prakasha:  "Fitness Beats Truth in the Evolution of Perception" che dimostra matematicamente il teorema che gli da il titolo, e cioè che la selezione naturale porta a favorire i geni che permettono di percepire la fitness invece che la realtà oggettiva).

Ciò che vediamo, secondo la TIP, è semplicemente "un desktop", un modello creato dal nostro cervello per “rappresentare” icone che corrispondono ai punti adattivi, e ci permettono di capire come guadagnarne di più favorendo così la nostra sopravvivenza e la possibilità di replicarci.

Un esempio tratto dal testo: se vediamo un’arancia più lontana di una mela, non è a causa del fatto che l' "oggetto arancia" si trovi più distante da noi rispetto all' "oggetto mela".
Piuttosto il vero motivo è da ricercarsi nel fatto che - per noi soli e solo in quel preciso momento - il costo in termini di risorse impiegate per raggiungere un massimo locale di punti adattivi (leggi "il nutrimento ricavabile dal mangiare la mela rapportato al costo sostenuto in termini di energia spesa per procurarcela") risulta inferiore al rapporto costi/benefici relativo all’arancia.

Dunque lo “spazio” che percepiamo (la struttura spazio/tempo) consisterebbe semplicemente in una rappresentazione iconica di diversi gradi di opportunità.

Il teorema FBT ci assicura dunque che ciò che vediamo NON può essere la realtà oggettiva, e la TIP aggiunge a questa intuizione:
“… le nostre percezioni costituiscono un’interfaccia esclusiva della nostra specie (sapiens) che nasconde la realtà e facilita la riproduzione: lo spazio tempo è il desktop di questa interfaccia e gli oggetti fisici rientrano tra le sue icone…” (Hoffman giugno 2020).

Pertanto la TIP, secondo l'autore, potrebbe consentire la formulazione di previsioni testabili (ad esempio il fatto che un elettrone non osservato non presenti un valore definito di spin, risolvendo così l'apparente paradosso di Schroedinger relativo al famoso gatto che, chiuso nella scatola, è "sia vivo che morto"), e dunque potrebbe esser definita una "teoria scientifica della coscienza".

A questo punto risulterebbe risolto anche il problema della raffigurazione della realtà oggettiva da parte del nostro cervello.

Alla fatidica domanda “la luna esiste anche quando non la guardiamo?” che si era posto Einstein (vedi Abraham Pais, "Einstein & the Quantum Theory) la risposta corretta sarebbe:

 "NO, ciò che crediamo essere la Luna (una realtà oggettiva) è soltanto un'icona sul nostro desktop: dietro l'icona della Luna ignoriamo cosa si celi".






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