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venerdì 8 gennaio 2021

Una risposta semplice (ma poco nota) ad una domanda semplice: quando un soggetto infettato dal virus Sars-CoV-2, diventa contagioso e fino a quando lo rimane?


Lo scorso 30 dicembre ho pubblicato sul mio blog un post relativo ad un'indagine a cura della dottoressa Müge Çevik dell’università scozzese di St. Andrews che metteva in dubbio l'efficacia di molte misure finora adottate contro la diffusione del virus Sars-CoV-2.

Ritorno a parlare del suo lavoro (pubblicato lo scorso 19 novembre sulla prestigiosa rivista Lancet Microbe col titolo "SARS-CoV-2, SARS-CoV, and MERS-CoV viral load dynamics, duration of viral shedding, and infectiousness: a systematic review and meta-analysis")  per chiarire un aspetto che avevo trascurato di approfondire, e cioè la risposta ad una domanda banale quanto essenziale:

"quando un soggetto, infettato dal virus Sars-CoV-2, diventa contagioso e fino a quando lo rimane?"

Dare una risposta a questa domanda è molto importante per comprendere casi di cronaca raccontati dai media con toni sensazionalistici i quali, oltre a creare confusione, rischiano di spingerci verso un atteggiamento fatalista, con conseguente allentamento della soglia di attenzione nei confronti delle misure di sicurezza.


Un paio di esempi:

- un risultato negativo al tampone antigenico offre una falsa sensazione di sicurezza: non di rado soggetti che vi si erano sottoposti, certi di non essere infettivi, hanno partecipato ad eventi e riunioni, dando luogo all'innesco di focolai, in quanto l'infezione era già in incubazione poco prima del test;

- infermieri risultati positivi qualche giorno dopo aver ricevuto la dose del nuovo vaccino contro il Covid.


La Çevik, insieme alla collega Antonia Ho dell’ateneo di Glasgow, cercano di stabilire il periodo esatto nel quale un individuo infetto sia più contagioso attraverso l'analisi di tre aspetti:

1) le dinamiche della carica virale (viral load dynamics): lo studio della variazione della quantità di particelle di Rna virale nell’organismo durante la fase infettiva;

2) lo "spargimento virale" (viral shedding): quanto dura il lasso di tempo durante il quale un individuo contribuisce a diffondere materiale genetico infetto (cosa che non significa necessariamente che egli stesso sia già - o ancora - infetto);

3) l’isolamento del virus vivente, e dunque in grado di infettare altri individui, (infectiousness) tramite tampone molecolare: è il miglior indicatore che abbiamo a disposizione per la misura della contagiosità di una persona.


La ricerca individua la finestra temporale di massima contagiosità: la carica virale raggiunga il culmine (nella gola e nel naso) dal primo giorno dei sintomi al quinto, non importa quale sia la loro intensità.

Tuttavia il materiale genetico (individuato dai tamponi in uso) continua ad essere rilevato - nella gola, nell’espettorato, nelle feci e nel sangue - per diverse settimane (in media per 17 giorni con punte di 83).

Questo spiega il motivo per il quale ci sono casi di pazienti che risultano ancora positivi al tampone dopo mesi dall'infezione; si tratta in genere di persone già immunodepresse prima del contagio, o di chi ha sviluppato forme gravi di Covid.

Ma attenzione: in quel materiale genetico NON c’è traccia della presenza di virus attivo, cioè in grado di replicarsi ed infettare, una volta che sono passati nove giorni dai primi sintomi!


Lo studio opera una distinzione:

- Asintomatici o con sintomi lievi e medi: massima contagiosità tra il primo giorno in cui compaiono i sintomi ed il quinto, ma potrebbero essere stati già contagiosi un paio di giorni prima.

- Sintomatici con forme gravi: massima contagiosità da diversi giorni prima della comparsa di sintomi.

In entrambi i casi, passati nove giorni dai primi sintomi, non si riscontrano tracce virali attive, quindi non c'è più rischio di contagiare altre persone.

E' interessante il paragone con la Sars del 2003 e la Mers, le altre due sindromi causate da coronavirus con effetti simili al Covid, con riferimento alle tempistiche del picco virale:

- Sars 2003: tra il decimo e il quattordicesimo giorno dopo l’inizio dei sintomi.

- Mers: fra il settimo e il decimo dopo l’inizio dei sintomi.

- Sars-CoV-2 (Covid): si può esser contagiosi anche PRIMA della comparsa dei sintomi.


Quindi mentre le misure di immediato isolamento dei sintomatici hanno permesso di contenere le epidemie di Sars2003 e della Mers, la lotta contro il Sars-CoV-2 è estremamente più difficile in quanto non c'è tempo per bloccare la catena trasmissiva: l’inizio dei sintomi corrisponde al perido di massima contagiosità.

Contact tracing e studi di modellizzazione dimostrano come la trasmissione del virus sia più elevata nei primi cinque giorni dalla comparsa dei primi sintomi: moltissimi pazienti la cui storia è stata analizzata risultano essersi contagiati in seguito al contatto con persone infette in quel lasso di tempo dall’insorgenza dei sintomi.


Conclusioni dello studio:

1) solo un sistema di testing rapido ed efficiente può contribuire ad evitare una situazione, assai frequente, nella quale soggetti potenzialmente positivi ed in attesa dei risultati del tampone ne contagino altri.

2) nel dubbio autoisolarsi, specie in presenza dei sintomi di malessere tipico della sindrome (dolori muscolari e alle articolazioni, febbre, tosse ecc.)

3) informare le persone con cui siamo stati in contatto almeno nei tre giorni precedenti, per consentire loro di sottoporsi a un tampone di controllo ed agire eventualmente come al punto 2.


A differenza dei paesi orientali, dove chi presenti sintomi o sia comunque venuto a contatto con un positivo viene posto in quarantena in un Covid-hospital, in quelli occidentali manca un sistema di welfare che permetta un isolamento efficace.

La quarantena "modello occidentale" coincide con un divieto ad uscire dalla propria abitazione, spesso condivisa con il coniuge e con i figli (talvolta pure con i genitori anziani, i soggetti più a rischio), e si concretizza infine nel confinamento in un locale del malato o sospetto contagiato: una misura di scarsa efficacia.


La Çevik e la Ho insistono sul fatto che i nostri governi dovrebbero attivare politiche straordinarie di welfare mirate a rimuovere ostacoli "sociali" che impediscono l'attuazione di un isolamento efficace al fine di contenere il contagio, quali la presenza di figli da accudire, un basso salario, un lavoro autonomo privo di malattia retribuita, ristrettezze abitative: sono tutti aspetti che disincentivano il senso di responsabilità sociale. 

Chi si trova in tali condizioni "tiene duro" e, finché ci riesce, ignora i sintomi, contribuendo così alla diffusione del virus.

I suggerimenti forniti dalle ricercatrici ai nostri policy makers:

- misure di sostentamento del reddito per quelle famiglie un cui membro sia colpito da misure di quarantena;

- messa a disposizione di strutture ove trascorrere il periodo di isolamento lontani dai conviventi abituali, quali Covid Hospitals e Covid Residences (a seconda della gravità della sindrome);

- supportare chi rimane confinato da solo presso la propria abitazione attraverso la distribuzione di generi alimentari e la fornitura di altri servizi.


Ma soprattutto accorciare i periodi di isolamento (sia preventivo che in seguito alla comparsa di sintomi) a quanto davvero sia utile per evitare successivi contagi: e cioè da cinque a sette giorni dopo l’inizio dei sintomi.

Una quarantena così calibrata sarebbe percepita in modo diverso e più responsabile dai singoli: oggi infatti un risultato positivo al tampone apre un limbo dal quale non si sa quando se ne potrà uscire. 

Avere invece un orizzonte limitato a 7 giorni di isolamento evita una sgradevole sensazione di incertezza e permette di limitare i problemi sociali e lavorativi.


Fonti:

https://www.thelancet.com/journals/lanmic/article/PIIS2666-5247(20)30172-5/fulltext#

https://davidemolinapersonale.blogspot.com/2020/12/blog-post.html










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