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martedì 29 ottobre 2019

Prodotti alternativi sono davvero meglio dei sacchetti di plastica per quanto riguarda l'impatto sull'ambiente?

Le difficoltà ad ottenere risultati attendibili utilizzando un modello complesso.

Uno dei problemi relativi all'ambiente oggi con maggior visibilità mediatica è rappresentato dall'enorme quantità di plastica dispersa da quando, negli anni '50 del '900, l'ingegnere italiano Giulio Natta ha scoperto il modo di ottenerla a partire dai residui di lavorazione degli idrocarburi.
Su scala umana i tempi in cui essa si decompone sono molto lunghi, ed oggi territorio ed oceani ne sono pieni: negli ultimi anni si è addirittura formata nel pacifico un'isola galleggiante di vaste dimensioni costituita da rifiuti di questo materiale alla deriva, ivi trasportati dalle correnti marine.
Argomento di recenti studi è l'impatto delle microplastiche sulla sfera biologica, ed in particolare sulla nostra salute: con questo termine si definiscono le particelle di dimensioni inferiori al millimetro - spesso invisibili - che disperdendosi nell'ambiente entrano nella catena alimentare e si legano ai tessuti degli esseri viventi con effetti ancora sconosciuti.
Anche l'origine delle microplastiche è argomento di ricerca: cosmetica, abbigliamento e processi industriali sono i maggiori imputati, insieme agli effetti dovuti a processi di lungo periodo di degradazione delle plastiche contenute nei rifiuti.  Risultano pure prodotte dall'attrito tra superfici di materiali sintetici, ad esempio quando vengono centrifugati i capi nelle nostre lavatrici, e dal consumo degli pneumatici.

Nei mesi scorsi ha suscitato clamore la guerra dichiarata ai sacchetti di plastica "usa e getta", accusati di essere la fonte maggiore di tale inquinamento, e addirittura una delle cause principali del cambiamento climatico.

In un'intervista alla BBC Raoul Thulin, figlio del defunto ingegnere svedese Sten Gustaf "inventore" dei sacchetti di plastica, ha cercato di recuperare la reputazione del padre, oggi considerato dall'opinione pubblica come persona insensibile ai temi ambientali e diretto responsabile della grave situazione attuale.
Raoul ha spiegato come l'intento originale del padre fosse semmai quello di proteggere l’ambiente, fornendo al mercato uno strumento per lo stoccaggio ed il trasporto delle merci che - a differenza di quanto allora a disposizione - fosse possibile riutilizzare all’infinito per scongiurare una produzione a catena di rifiuti.
Nei primi anni '60 i supermercati fornivano come unico mezzo per trasportare a casa gli acquisti i sacchetti di carta, la cui produzione comportava l'abbattimento continuo di milioni di alberi: la scoperta di un'alternativa che permettesse un riutilizzo (i sacchetti di carta si strappano con facilità, si deteriorano in ambiente umido e sono in pratica monouso) sembrava allora un grande miglioramento.
Raoul ricorda come il padre tenesse sempre con sé, ripiegato in tasca, un sacchetto di plastica già utilizzato più volte: chi come me oggi ha superato i 50 anni avrà sicuramente lo stesso ricordo perchè a quei tempi il sacchetto di plastica aveva un costo, ed usarlo una sola volta comportava uno spreco di denaro non giustificabile.

Dalla seconda metà degli anni '70 il sacchetto di plastica superò nell'utilizzo e nella produzione i numeri di quelli di carta o di cotone: la produzione in massa ne decretò un crollo dei costi, così che veniva percepito dal consumatore come bene gratuito.
Era poi il periodo nel quale si stava trasformando in strumento di advertizing: supermercati e negozi stampavano sopra il proprio logo per farsi pubblicità, evitando così di farlo pagare ai clienti, e si iniziò a considerarlo un prodotto "usa e getta".

La giornalista ambientalista Laura Foster si è chiesta se la guerra ai sacchetti di plastica sia davvero la soluzione per ridurre i costi ambientali, riconsiderando la questione in termini di cambiamento climatico.
Prendendo in esame l'impatto ambientale dal punto di vista della produzione, borse di carta e di cotone - che costituiscono l'alternativa a quelle di plastica - sono decisamente più inquinanti perchè i loro processi produttivi richiedono molta più energia e molta più acqua.

Qualora il settore della moda - sotto pressione da parte dell'opinione pubblica ambientalista - si indirizzasse verso l'utilizzo di questi materiali, rischieremmo di trovare in futuro meno plastiche disperse ma di dover fronteggiare altri problemi, forse ancor più seri.
Secondo l'Agenzia per l'ambiente del Regno Unito, un sacchetto di carta deve essere utilizzato tre volte ed uno di cotone centotrentun volte per essere ecologico come un sacchetto di plastica riciclato: i sacchetti di plastica sono infatti più efficienti poichè la loro produzione necessita solo piccole quantità di petrolio ed un consumo minimo di energia.

(fonte: https://www.msn.com/it-it/notizie/italia/linventore-dei-sacchetti-di-plastica-voleva-salvare-lambiente/ar-AAJgUmf?ocid=spartanntp )

La ricercatrice Oxford Isabel Key sostiene che in questo contesto l'errore di valutazione nel quale sia incorsa l'opinione pubblica ambientalista consti nell'essersi focalizzata sulla parte finale della reazione a catena innescata dall’impatto antropocentrico sulla terra: da questo punto di vista è l’inquinamento causato dalla plastica il problema più grande.
In realtà per un giudizio ponderato bisognerebbe guardare alla parte iniziale del ciclo produttivo di sostanze nocive per l’ambiente: e qui la plastica vince sulle alternative.


Prendo spunto da questo caso specifico per parlare ancora una volta della complessità della realtà in cui viviamo, della difficoltà che noi Sapiens troviamo nel cercare di gestirla e del falso senso di sicurezza che genera una spiegazione all'apparenza semplice (fornita spesso in malafede da coloro cui abbiamo delegato la responsabilità di prendere decisioni in merito).

Negli anni '90, durante un volo interno agli USA, ricordo di aver letto sulla rivista della compagnia aerea un articolo scritto da un ricercatore che si occupava di "ecologia" (termine allora in auge).
Nell'incipit si era posto una domanda all'apparenza banale:
"... dal punto di vista dell’impatto ambientale, l’americano medio nella consuetudine del suo breakfast dovrebbe preferire il consumo del succo d’arancia spremuto al momento oppure scegliere di acquistare nei supermercati cartoni con il succo già pronto al consumo?...”

Certo, dal punto di vista del gusto non c'è confronto: comprare le arance e spremerle permette di ottenere un succo ricco di sapore e vitamine, parte delle quali andrebbero invece perse nei processi di produzione industriale (è la ragione per la quale sulle confezioni è spesso pubblicizzata l'aggiunta di complessi vitaminici).

Tuttavia se guardiamo al problema dal punto di vista dell'ambiente, dare una risposta corretta su quale comportamento sia meglio promuovere diventa via via più complesso mano a mano che aggiungiamo variabili al modello matematico che stiamo costruendo per scoprirlo.
Lontananza dai terreni di raccolta, processi di produzione impiegati, tipo di prodotto e volumi trasportati, modalità di distribuzione e non ultimi i rifiuti prodotti ed il loro trattamento: inserendo progressivamente dati relativi a questi aspetti, la palma di soluzione "più ecologica" sembra passare di volta in volta  dalla spremuta in loco al succo industriale e viceversa.

Un esempio delle difficoltà incontrate nello studio del caso:
- a pari quantità di liquido ricavato, spostare arance invece del succo confezionato comporta maggiori costi ambientali connessi al trasporto; avendo infatti una forma sferica, un loro accatastamento occupa più spazio rispetto a contenitori a forma di parallelepipedo, richiedono particolari cure per la loro conservazione (ambienti protetti e spesso refrigerati per evitare che di deteriorino), senza contare che al momento del consumo parte del frutto sarà comunque scartata.
- d'altra parte la lavorazione industriale del succo nei luoghi di produzione comporta l'uso di macchinari e processi produttivi che possono avere un'incidenza sull'ambiente pari o addirittura superiore all'impatto del trasporto.

Il ricercatore - del quale purtroppo non ricordo il nome - rimarcava come in talune situazioni la risposta della scienza ad un problema pratico sembri non essere univoca e definitiva.
Nel nostro esempio la scelta dell'opzione migliore sembrerebbe dipendere dai principi etici di chi dovrebbe occuparsene come policy maker: ciò significa che talvolta l’oggettività in situazioni complesse debba lasciare il passo alla soggettività, pena l’irrilevanza del metodo scientifico nel risolvere problemi pratici.

Al crescere della complessità del modello utilizzato, nell'intento di riprodurre la realtà nel modo più fedele possibile, il risultato cambia di continuo: non potendo esser certi di aver preso in considerazione tutte le variabili in gioco, qualunque sia il livello di complessità raggiunto dal nostro modello non si può escludere che l'introduzione di una ulteriore variabile comporti di nuovo un cambio della soluzione.

Oggi lo sviluppo di tecniche di gestione dei modelli non lineari (teoria del chaos) e l’utilizzo di algoritmi di IA (in alternativa alla metodologia classica dell’induzione statistica) sembrano aver migliorato la nostra capacità di prendere decisioni ottimali in presenza di situazioni complesse.  Tuttavia non sono sicuro della loro efficacia in ogni ambito.

Concludo questo post facendo mio l'esordio di Guido Barbujani, genetista italiano, al suo intervento in occasione del Festival della Comunicazione di Camogli:
“Per ogni domanda complicata c’è sempre una risposta semplice ma ... in genere è sbagliata!”


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