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mercoledì 28 agosto 2019

Facebook potrebbe ridurre sensibilmente il numero dei posts violenti e limitare l'odio in rete, ma non lo farà perché danneggerebbe il suo modello di business


La scorsa settimana mi sono imbattuto per caso in un articolo di cronaca che mi ha portato a riflettere su quali possano essere i meccanismi che inducono i frequentatori di Facebook a condividere posts dai toni aggressivi (o quanto meno li spinge a cliccare sul pulsante "mi piace") .

Un ricercatore dell'Università di Torino si occupa da anni di sperimentazioni su animali viventi, rispettando i rigidi protocolli previsti ed approvati dai comitati etici competenti.
Nonostante non si tratti di un dipendente di una multinazionale senza scrupoli, negli ultimi mesi è stato vittima di una campagna di odio sui socials, e qualche haters si è addirittura spinto a mettere in atto nei suoi confronti azioni violente, con inseguimenti, contatti fisici e l'invio per posta di un proiettile come minaccia di morte.

(il testo completo, è visionabile al seguente link:  lo-scienziato-che-vive-sotto-scorta-studio-i-macachi-ciechi19 )

L'articolo è interessante, tuttavia non è il caso specifico che mi preme indagare, quanto la natura dell'impulso "ansiogeno" che ci prende davanti ad un messaggio breve e violento, del quale magari condividiamo solo alcune istanze.

La frustrazione che l'uomo comune prova di fronte a qualcosa che sfugge al suo controllo ne è senza dubbio l'innesco, e questo spiega il successo della satira.
Negli anni '70 / '80 del 900 si è passati da un tono soft - ben rappresentato dalle vignette di Forattini i cui "bersagli" spesso gli chiedevano l'originale da collezionare - alla satira feroce rintracciabile sul periodico "Il male", di cui il famoso "Charlie Hebdo" è stato l'erede.

Nei primi anni '90 il grande ed inaspettato successo mediatico di mani pulite ha aperto una nuova stagione della tattica politica: all'interno dei partiti i pianificatori della comunicazione hanno compreso che un attacco violento alla controparte, nel tentativo di screditarla con parole anche offensive, pagava in termini di consenso.
Da allora l'insulto è stato sdoganato ed è diventato consuetudine nell'arena politica, quanto meno in pubblico: il linguaggio della politica si è dunque adattato di conseguenza. 
Il rispetto per l'avversario e per le sue opinioni, regola base che aveva caratterizzato il dibattito parlamentare nella prima Repubblica, è stato di colpo cancellato, sostituito da un linguaggio colorito e spesso volgare.
Ma attenzione: insulto e violenza verbale erano strumento utilizzato esclusivamente in pubblico e ad uso del pubblico.
Nei rapporti personali che intercorrevano tra i professionisti della politica il rispetto reciproco era d'abitudine.

La diffusione dei socials all'alba del nuovo millennio ha ancora una volta sparigliato le carte.
I "giornali di partito", i media "schierati", piano piano hanno perso efficacia nel procurare consenso: i millenials si informano a costo zero su internet, non leggono più la carta stampata. 
Sono stati abituati al messaggio sintetico dal linguaggio della pubblicità, lo slogan (mutuato in seguito dalla politica).

Contrariamente a quanto pensavano gli intellettuali di fine '900, la storia non è finita: la "resa" del blocco orientale non ha portato affatto ad un periodo di pace e prosperità.    Con la presenza contemporanea sulla scena globale di più attori rilevanti - in precedenza schierati all'interno di uno dei due blocchi - gli equilibri geopolitici sono diventati più complicati.
Il terzo millennio si è subito presentato complesso: fenomeni come la globalizzazione, il terrorismo a matrice islamica, enormi flussi migratori che dal sud del mondo si muovono verso il nord, non sono di facile comprensione, neppure per chi possiede un bagaglio culturale non banale.
Per chi cerca di orientarsi nei primi decenni del 2000 è richiesto un continuo aggiornamento delle proprie nozioni: l'impegno per documentarsi, per evitare di "rimanere indietro", costa estrema fatica.

La difficoltà di comprendere "cosa stia succedendo" ed il perchè le promesse di ulteriore benessere non si siano realizzate ha spinto una gran parte della popolazione, pur acculturata da un lungo percorso educativo, ad arrendersi, a rifiutare la sfida.

La frenesia di approfondimento che aveva caratterizzato il pubblico negli anni '90 ha lasciato spazio allo scoramento: "credevamo - con l'impegno - di poter arrivare a capire tutto, ma le regole sono improvvisamente cambiate e siamo disorientati: verrà qualcuno a spiegarci cosa succede e ci dirà cosa fare".

E' il trionfo sia dell'analfabetismo funzionale che dell'analfabetismo di ritorno: non stimolata da letture, spettacoli, dibattiti, anche la cultura acquisita in precedenza tende a "svaporare", come una lingua straniera non praticata (qualcuno ha detto che la cultura è ciò che rimane quando si dimenticano tutte le nozioni acqusite).

In un tale contesto si assiste alla diffusione di FB, cioè Facebook, il principale tra i social media.
Il meccanismo alla base del suo successo è banale: ho la possibilità di comunicare con gli amici già con un account e rintracciare i conoscenti  che ho perso di vista (compagni di scuola, vecchie fiamme, amici d'infanzia, e così via). 
Dopo un approccio con messaggi del tipo "cosa hai fatto in tutti questi anni", si passa ad un dialogo che ricorda il chiacchiericcio tra amici al tavolo di un bar: si parla di tutto "senza freni", coccolati da un senso fasullo di privacy.

Le caselle dove inserire i messaggi da scambiare con "gli amici" sono piccole (anche se consentono di postare testi di grandi dimensioni come il presente): oltre le poche righe sia la digitazione che l'editazione diventano scomode.
Veniamo pertanto spinti a condensare il post in poche battute, ottenendo messaggi che così assomigliano sempre più a slogans con il sacrificio dei contenuti.

Come già indicato, la privacy nei social è solo apparenza: il numero dei nostri "amici" (FB ad ogni nuovo accesso propone "nominativi di persone che potresti conoscere") cresce rapidamente nel tempo.
Potenzialmente ognuno di loro potrebbe leggere i post che scriviamo (in realtà l'algoritmo pone dei limiti, come vedremo tra un attimo).
Il tono confidenziale proprio di una conversazione privata - nel corso della quale ci si può esporre con giudizi e con un linguaggio che mai useremmo davanti ad un pubblico più vasto - diventa poco a poco caratteristica della comunicazione sul social.

Poichè il numero medio di "amici" per ogni account supera il centinaio, l'algoritmo di FB interviene a limitare il numero di quelli i cui post vengono mostrati in tempo reale sulla bacheca personale. 
Il frequentatore di FB vedrà solo i post degli amici con profili simili al suo, interessati agli stessi gruppi, quelli con i quali condividiamo più frequentemente i posts, coloro che visualizzano argomenti simili: quelli che in una parola sono "compatibili" come profilo.
La conseguenza è che così viene creata una "bolla": sarò in contatto solo con chi condivide le mie posizioni ed i miei interessi.

Ancora una volta i professionisti della comunicazione politica hanno pensato di sfruttare a loro vantaggio questa situazione: se voglio attirare consensi basterà inserirsi in queste "bolle" con messaggi mirati, scegliendo slogan "forti" che possano così apparire condivisibili, e dalla posizione acquisita influenzare il gruppo che si trasformerà in cassa di risonanza dei miei messaggi.

Ma quale tipo di messaggi sono efficaci per stimolare la condivisione ed attirare i "mi piace", evitando che il destinatario passi troppo tempo a ragionarci sopra, col rischio che si insinui il dubbio?

Non è una novità che messaggi dal contenuto offensivo o violento provochino nella controparte reazioni cosiddette "istintive".
Questo tipo di messaggi utilizza una via diversa all'interno del nostro cervello.
In un post precedente spiegavo l'illusione del libero arbitrio: recenti esperimenti hanno provato che agiamo qualche secondo prima che la nostra coscienza prenda una decisione consapevole.
Dunque se un messaggio è abbastanza breve in grado di stimolare un'azione "facile" da realizzare in tempi rapidissimi, l'intervento censorio della coscienza sarà meno efficace.

Una invettiva contro qualcuno o qualcosa che consideriamo responsabile di un nostro disagio, di una nostra ansia, bypassando la coscienza non ci da il tempo di riflettere e ... lo strumento della condivisione è lì, appena sotto il messaggio.
Non devo far scorrere lo schermo, spostarmi con il mouse o girare lo sguardo.
La posizione del pulsante è comodissima, basta un click.
I tempi tra la lettura del messaggio ed il click sono rapidissimi, ed ecco che mi trovo ad aver condiviso senza aver ragionato sul significato del messaggio.

Non è una situazione diversa da quando riceviamo un insulto ed abbiamo l'impulso ad agire violentemente: siamo pronti a scattare ma in questo caso dobbiamo prepararci modificando la postura, studiare dove colpire ... abbiamo bisogno di un po'di tempo. 
Tempo durante il quale la nostra coscienza agisce e ci fa riflettere se sia il caso di usare violenza, su quali siano le conseguenze, se ne valga la pena.  E' questa l'azione "censoria" della coscienza.  Controllare gli impulsi.

Notiamo dunque una grossa responsabilità da parte di FB, il social che decide la posizione degli elementi sullo schermo.
Per evitare reazioni istintive basterebbe spostare in una zona non troppo vicina al post i pulsanti "condividi" e "mi piace", così da costringere il nostro cervello a pianificare un movimento fisico.   Magari inserendo pure una richiesta di conferma prima di procedere alla condivisione.

Facebook non seguirà mai un'indicazione di buon senso come questa in quanto il suo successo (soprattutto dal punto di vista economico) è legato alla quantità di "mi piace" che riesce a "strappare" al frequentatore.
Più un profilo attira i "likes" e le condivisioni, più diventa interessante per gli sponsors, e quindi crea ricchezza per il social.
Per concludere riporto un'affermazione che mi ha colpito riportata nell'articolo già citato relativo al ricercatore torinese aggredito:
"Mi chiedo quante persone dieci anni fa ritenessero che la terra fosse piatta ed i vaccini uno strumento delle multinazionali del farmaco".




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