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mercoledì 11 settembre 2019

Perché la scienza ha fallito nel compito di rendere la gente capace di ragionare in modo razionale.

Il mio post precedente si concludeva con le parole di un ricercatore dell'Università di Torino che fanno riflettere:
"Mi chiedo quante persone, solo dieci anni fa, ritenessero che la terra fosse piatta ed i vaccini uno strumento delle multinazionali del farmaco".

Questa affermazione, sicuramente corretta e verificabile, dimostra in maniera incontrovertibile una verità scomoda, spesso rimossa dalle stesse persone che si occupano di scienza: nonostante il metodo scientifico abbia prodotto risultati mirabolanti, mettendoci a disposizione tecnologie un tempo inimmaginabili, l'affezione verso la scienza negli ultimi anni è andata scemando soprattutto nei paesi industrializzati dove la sua azione è più visibile.

Perché?

Max Tegmark, cosmologo svedese naturalizzato statunitense e professore presso il Massachusetts Institute of Technology, si è chiesto la stessa cosa nelle pagine conclusive del suo primo testo divulgativo, "L'universo matematico", pubblicato nel 2014.
Secondo Tegmark istruzione e fedeltà ad uno stile di vita scientifico sono diminuiti -  invece di aumentare come ci si sarebbe aspettato - a causa dell'azione combinata di multinazionali e gruppi religiosi, soggetti entrambi preoccupati di perdere utili, adepti ed in ultima analisi "potere" qualora una migliore conoscenza scientifica si diffonda.
La sua ipotesi è che le tesi pseudoscientifiche, da essi propinate per puro interesse economico, non reggerebbero ad un confronto con la scienza ufficiale: pertanto quest'ultime remano contro e confondono le acque, agendo per altro con estrema efficacia in quanto dispongono di ingentissimi fondi e - paradosso! - sono organizzate più “scientificamente”.
Le aziende di grosse dimensioni dispongono infatti di raffinati strumenti scientifici di marketing (il neuromarketing ad esempio), sono smaliziate nell'uso dei social e dei media tradizionali, quando necessario ricorrono a scorrettezze senza porsi problemi di etica.

La scienza ufficiale invece, per sua stessa natura, è costretta a muoversi in un contesto logico corretto e soggetto a regole etiche: in questa lotta per la diffusione di un tipo di ragionamento non può che soccombere contro avversari le cui azioni non sono frenate dagli stessi vincoli.

La soluzione per Tegmark è una sola: usare gli stessi metodi degli antagonisti.
Creare cioè organizzazioni che difendano la scienza con gli stessi strumenti di marketing e di autofinanziamento impiegati dalla coalizione anti-scientifica.
Pubblicità, gruppi di pressione, focus-group per identificare slogans accattivanti: vendere la scienza come un qualsiasi prodotto, rifiutando tuttavia la disonestà intellettuale in quanto i fatti sono già dalla parte del metodo scientifico.

Seppur corretta, ritengo l'analisi di Tegmark troppo riduttiva: a ben vedere, il rifiuto del metodo scientifico non proviene solo da clienti fidelizzati di multinazionali e da individui condizionati da gruppi religiosi.
Persone con un buon grado di istruzione si arrendono oggi davanti alla complessità pur senza cadere in forme di condizionamento.
La spiegazione che fornisco chiama in correo la scienza stessa.
Proprio perchè ha prodotto in tempi brevi una tecnologia che prima ho definito "mirabolante", si è creato un solco tra la scienza e l'uomo comune, che oggi la pone sullo stesso piano della "magia".
Provo a spiegarmi meglio.

Il processo di spettacolarizzazione della scienza - un esempio sono state le missioni "Apollo" (di cui ricorre il cinquantenario) che hanno portato l'uomo sulla Luna - ha creato attese che sono state deluse.
Dove sono le automobili volanti, le basi sulla Luna, le missioni di astronauti su Marte, il turismo spaziale? Questo è quanto la mia generazione si aspettava di veder realizzato prima del nuovo millennio.
Non immaginava certo l'avvento della rivoluzione informatica, di internet, degli smartphones: eppure sono il risultato più importante della corsa allo spazio.
I germi di queste tecnologie erano già tutti presenti in quel periodo: gli ingegneri che avevano concentrato i loro sforzi per miniaturizzare i computers così da poterli caricare sui moduli spaziali, sicuramente immaginavano che l'evoluzione di queste macchine avrebbe portato un PC su ogni scrivania; gli informatici che avevano collegato tramite Arpanet i centri di ricerca delle principali università americane avranno dato per scontato che i nodi in futuro sarebbero aumentati di numero, sino a collegare computers sparsi per il mondo; chi sviluppò i comunicatori rudimentali che gli astronauti utilizzavano muovendosi sul satellite trasmettendo immagini e suoni sulla terra, avrà pensato ad un loro futuro utilizzo diffuso sulla terra.
Chi ha partecipato all'impresa con competenze specifiche aveva dunque una visione diversa relativamente al futuro rispetto al semplice spettatore.

L'evolversi della tecnologia da quel punto in poi ha iniziato a scavare il solco tra chi la padroneggiava e chi no.

In precedenza - parlando dell'analfabetismo funzionale - ho già accennato al fatto che l'utilizzo di qualunque tecnologia presupponga un minimo di informazione per poterla utilizzare.
I primi personal computers, in genere venduti privi di software specifici, costringevano i possessori ad imparare i rudimenti della programmazione: Vic20, Synclair, Commodore64, M20 Olivetti, IBM XT.
I ragazzi che li ricevevano in regalo o chi per passione del prodotto innovativo se li comprava, doveva digitare istruzioni in Basic: cioè apprendere ed utilizzare elementi di logica e matematica.

Presto, per allargare il numero degli utilizzatori (le aziende dovevano aumentare le vendite...) sono state cercate interfaccia "amichevoli", sistemi operativi con elementi di grafica che evitasse la noiosa digitazione di lunghe istruzioni.
Windows ed Apple, dispositivi come il mouse, le icone su cui cliccare invece di usare la tastiera.
Le indicazioni date oggi dai produttori ai programmatori che sviluppano le apps spingono per soluzioni estremamente intuitive per l'utente: "dovete pensare di trovarvi di fronte ad un dummy", in altre parole anche un "idiota" deve poter usare il dispositivo elettronico pur non sapendo nulla di come funzioni.
Se da una parte questa tendenza permette un utilizzo immediato a chiunque (in un certo senso è "democratica"), dall'altra trasforma la tecnologia in qualcosa di simile alla magia, di estraneo.
Secoli fa chi si rivolgeva all'astrologo per un oroscopo od alla fattucchiera per una pozione comprava un risultato (o credeva di comprarlo), non il metodo per ottenerlo (che rimaneva il segreto del fornitore).
Oggi ci si rivolge alla tecnologia quasi nello stesso modo: è tutto troppo complicato, richiede troppo studio ed impegno.
C'è comunque qualcuno che lo fa per noi (Apple, Facebook, Amazon) e ci offre tecnologia gratis o a prezzi abbordabili (o così ne siamo convinti).

Il risultato di questo processo è la perdita della capacità di distinguere l'informazione scientifica da quella pseudoscientifica, che magari è più accattivante perché stuzzica i nostri desideri ed il nostro ego.
Ed infine la confusione della scienza con il suo prodotto, e cioè la tecnologia.

Concludo con una bella massima di Edward Louis Bernays: “Il ragionamento non trova spazio nella mentalità collettiva che è guidata dall’impulso, dall’abitudine o dall’emozione”

Vogliamo una nuova affezione alla razionalità? Cerchiamo di dare emozioni attraverso la scienza.



1 commento:

  1. Bravo per un analfabeta fumzionale come me e'un modo di cercare di mantenere sveglio il cervello.

    Circa il post sulla probabilita' sono troppo pigro per cimentarmi.
    Butto li un 50%e aspetto tuo seguito.
    Ciao

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