La felicità è ciò cui ognuno di noi aspira, indipendentemente dal
genere, dall'età, dalla latitudine e dal tipo di società in cui viviamo.
Possiamo esser sicuri che tale obiettivo ha accompagnato l'uomo sin
dalle sue origini: deve dunque essere qualcosa di intrinsecamente
connesso con l'evoluzione, un processo che ci ha dato un qualche
vantaggio competitivo.
Pur essendo qualcosa di estremamente soggettivo, apparentemente non
legato ad alcun aspetto fisico (cosa che ne determina la difficoltà di
misurazione), la sua assenza porta ad una sindrome depressiva con
profonde conseguenze per il fisico dell'individuo, finanche alla morte.
Come possiamo allora definirla?
Spesso il termine "felicità" è stato usato come "richiamo" dalle diverse ideologie per attirare consenso.
Ottenere lo status di cittadino romano all'inizio della nostra era
significava avere ottime possibilità di non finire schiavi e di vedersi
riconosciuti dei "diritti" (a scapito di altri individui, bisognerebbe
aggiungere) tra i quali quello di possedere qualcosa in maniera
esclusiva.
Nel periodo convulso che seguì la caduta dell'impero romano, gli ordini
monastici promuovevano una vita "tranquilla" ed appartata al fine di
raggiungere una felicità interiore non basata sul possesso beni
materiali (condivisione delle proprietà).
Il rinascimento identificava felicità con la conoscenza e l'arte: il
cittadino di Firenze doveva essere orgoglioso di appartenere ad una
comunità così ricca di sapere ed opere d'arte, disponibili alla sua
vista in ogni momento perché ostentate dal potere. Doveva sentirsi
oggetto di invidia da parte degli altri abitanti della penisola non così
fortunati.
La rivoluzione francese promosse un altro tipo di felicità:
l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge ed eguali
possibilità (teoriche!) di costruirsi un futuro.
Infine, le tre ideologie del '900 ne proposero significati diversi e contrastanti:
I nazionalisti ritengono consista nell'autodeterminazione politica dei popoli;
i socialisti ritengono sia da ricercarsi nella dittatura del proletariato;
i liberisti/capitalisti ritengono consista nella crescente abbondanza di
beni disponibili, risultato della crescita ottenibile solo con il
libero mercato.
Le nostre economie mature ci permettono oggi di "toglierci molti sfizi"
rispetto ai nostri nonni od agli abitanti di paesi non altrettanto
fortunati: quindi secondo la vulgata liberista dovremmo finalmente aver
raggiunto tutti quanti la felicità.
Di questa affermazione non possiamo tuttavia essere sicuri: talvolta per
essere felici basta ignorare che esista un tipo di vita diverso.
Un'amica che ha vissuto la propria infanzia negli anni '70 in Cina
ricorda le privazioni e le difficoltà incontrate dalla sua famiglia, e
non le rimpiange di certo!
Tuttavia quando racconta del capodanno cinese, festa in occasione della
quale venivano distribuiti i vestiti nuovi che poi dovevano durare per
tutto l'anno, le sue parole esprimono un sentimento di gioia così
intenso provato in quell'occasione che l'abbondanza di oggi non è in
grado di replicare.
Qualcosa di simile l'abbiamo verificato tutti nella nostra vita:
sembrerebbe pertanto che l'aumento della disponibilità di beni materiali
comporti un'attenuazione del grado di felicità che l'individuo è in
grado di provare quando un suo desiderio venga raggiunto.
Una specie di processo di saturazione, una curva che cresce rapidamente e poi si adagia gradatamente su un piano.
Beau Lotto, il neuroscienziato che ha scritto il saggio "Percezioni",
sostiene che siamo stati programmati dall'evoluzione per percepire
soltanto cambiamenti: se questi sono piccoli (il mio reddito passa da
300.000 euro all'anno a 330.000, +10%) ci farò meno caso rispetto ad
altri di egual valore ma diverso peso (il mio reddito passa da 30.000 a
60.000 euro, sempre 30.000 di differenza ma significa + 100%).
Quindi le reazioni umane agli eventi, la felicità nel nostro caso, sono proporzionate esclusivamente al "tasso di variazione".
Yuval N. Harari in "Sapiens" sostiene che la felicità dell'individuo
dipenda dal rapporto tra condizioni oggettive e aspettative soggettive.
Questo spiegherebbe il paradosso di una infelicità crescente nelle
odierne società opulente: mass media ed industria pubblicitaria spostano
di continuo l'asticella delle nostre aspettative, rendendo di
conseguenza più difficile godersi il momento in cui abbiamo soddisfatto
un nostro desiderio. Appena ottenuto ciò che ci eravamo prefissi, ci
propongono qualcosa di nuovo o di diverso.
Ma è questo il motore dell'economia capitalista: senza una continua
crescita della domanda, si blocca lo sviluppo ed il sistema implode.
Di recente ho parlato del transumanesimo, e cioè la possibilità - uno
scenario oggi altamente plausibile - di estendere la durata della vita
umana attraverso la bionica, la biologia molecolare, interventi sul DNA,
e così via.
Risultato potrebbe essere una nuova razza umana diversa dalla nostra, una possibilità tuttavia riservata a pochi.
Quale potrebbe essere l'influenza di una tale trasformazione sulla felicità degli individui?
Senz'altro chi ne sarà escluso sarà rabbioso nei confronti dei fortunati che potranno permettersi il costo di tali interventi.
Ma, loro "i transumani", saranno davvero più felici?
Penso che per rispondere a questa domanda basti guardare alla propria
esperienza di vita: quando eravamo adolescenti il controllo genitoriale
sulle nostre azioni (i nostri giochi, i movimenti) era sicuramente meno
oppressivo di quello esercitato dai genitori di oggi sui propri figli.
Opinione comune è che "oggi i pericoli siano maggiori di una volta" mentre la realtà è esattamente il contrario.
Le società attuali hanno creato una serie regole "per la salvaguardia
della sicurezza" che non esistevano fino a qualche anno fa.
Non c'erano le cinture di sicurezza sulle auto, guidavamo bici e moto
senza casco, salivamo in 6 su un'utilitaria o sul cassone di un
furgoncino non dotato certo di frenata assistita, servosterzo, e così
via.
Facevamo le nostre esperienze: cadevamo, ci facevamo male, ma imparavamo dal "fare qualcosa".
Oggi succede il contrario: più che "a fare" a bambini e ragazzi si insegna "a non fare", a non mettersi in pericolo.
Nel mio post del 28 dicembre - intitolato "Igor Stravinskij ha
modificato la corteccia cerebrale della cultura europea" - riporto la
storia di Ben Underwood, un bimbo diventato cieco che ha sviluppato un
"senso" nuovo, la capacità di ecolocalizzare oggetti ed ostacoli,
potendo così muoversi in autonomia anche in bici. Non sarebbe stato
possibile senza la determinazione della madre a lasciarlo sperimentare,
cadere e rialzarsi, rischiare!
La mia previsione è che "i transumani" - rapportandosi ad una durata
(teorica) più lunga della loro vita - saranno angosciati dalla
possibilità di non potersi godere questo vantaggio per un incidente
stradale, una malattia, un attentato terroristico.
E l'angoscia è la negazione della felicità!
Torniamo ora all'inizio: abbiamo affermato che la felicità è una
sensazione provata dall'individuo, temporanea ed infrequente,
sicuramente risultato di una selezione evolutiva.
Le sensazioni di benessere che talvolta proviamo sono provocate non da
fattori esterni, ma da meccanismi biochimici all'interno del nostro
cervello che coinvolgono i livelli di serotonina, ossitocina e dopamina.
Sostanze chimiche che interagiscono con questi livelli (spesso definite "droghe") sono in grado di provocare felicità.
Tuttavia il nostro cervello è programmato per mantenere livelli di felicità quasi costanti attivando meccanismi di feedback.
Felicità ed infelicità - dice ancora Harari - hanno il ruolo di incoraggiare o scoraggiare sopravvivenza e riproduzione.
Il piacere provato nel compiere un atto sessuale deve per forza durare
poco: altrimenti una soddisfazione persistente ci lascerebbe inebetiti e
non ci preoccuperemmo di procurarci il cibo necessario a sopravvivere.
Ci sono poi individui "programmati" per provare felicità più intensa, o più frequente: gli ottimisti!
Sono persone affabili con cui ci troviamo bene perché vedono sempre il
lato positivo delle cose: quindi con più possibilità rispetto ai
pessimisti di instaurare rapporti matrimoniali stabili.
La correlazione individuata dalle ricerche di psicologia/sociologia
"matrimonio stabile -> felicità individuale" nell'ottica della
biologia sarebbe da ribaltare: "individuo ottimista -> felice più
spesso -> maggiori opportunità di creare matrimonio stabile".
Altri invece fanno più fatica a raggiungere e mantenere a lungo
sensazioni positive: il loro processi biochimici di feedback sono più
efficaci e pertanto... "staccano prima la spina" della felicità.
Ma neppure la spiegazione "biologica" è sufficiente a descrivere nel complesso ciò che definiamo felicità.
Probabilmente si tratta di combinare biologia (cosa succede al nostro
interno) con ciò che capita nel mondo esterno ed ha influenza su di noi.
Altrimenti il Prozac sarebbe la soluzione universale!
Daniel Kahneman, lettura suggeritami dall'amico Diego, prende ad esempio
le cure parentali: oggettivamente sono incombenze pesanti, che una
mente razionale cercherebbe di evitare.
Eppure quasi tutti i genitori traggono enormi soddisfazioni nel crescere un bambino.
Nella felicità deve per forza esserci una componente cognitiva ed etica:
"se hai un motivo per vivere sopporti tutto" diceva Nietzche.
Lo scienziato che dedica la propria vita alla ricerca, il soldato che la
sacrifica per la vittoria, il monaco che rinuncia a tutto per il bene
supremo: forse - conclude Harari - la felicità sta nel sincronizzare le
proprie illusioni personali sul senso della vita con quelle collettive
prevalenti.
Richard Dawkins nel suo saggio "Il gene egoista" (del 1976) rilegge il
comportamento umano, con le contraddizioni appena evidenziate, come
risultato del tentativo dei geni di replicarsi: l'uomo non è che un
burattino usato dai geni per replicare se stessi e sopravvivere.
Secondo la sua teoria è il gene il soggetto della selezione naturale, non l'individuo.
"I geni che vengono trasmessi sono solamente quelli le cui conseguenze
servono per i loro stessi interessi, non necessariamente quelli
dell'organismo (o della specie)"
Infine i buddhisti, come anche i biologi, sostengono che la felicità
dipenda da eventi "interni" al nostro corpo, non da quelli esterni.
Tuttavia i primi - a differenza dei secondi - ritengono che erroneamente
venga identificata la felicità con le sole sensazioni piacevoli (e
quindi la sofferenza con quelle spiacevoli).
Conseguenza di tale errore, spendiamo gran parte del nostro tempo a
ricorrere le sensazioni piacevoli che, come ha dimostrato la biologia,
durano poco per effetto dei processi di feedback di cui abbiamo appena
parlato.
Questa ricerca di uno stato di costante soddisfazione - impossibile da
ottenere per cause fisiche - provoca nell'individuo ansia e disagio,
frustrazione e quindi infelicità.
Per il Buddha la soluzione era una sola: dobbiamo renderci conto che le
sensazioni sono effimere e non possiamo aver controllo su di esse.
Smettendo quindi di ricercare le sensazioni piacevoli, curiamo l'ansia e
permettiamo alla nostra mente di fermarsi, rilassarsi e risultare così
appagata.
Il suo insegnamento è "vivete nel presente invece di fantasticare su possibilità non realizzate: proverete serenità".
La felicità per lui dunque risulta indipendente dalle sensazioni
oggettive (che è l'esatto contrario di quanto sostenuto dai biologi e
dalle teorie "new age").
Per ottenerla dobbiamo rinunciare alla ricerca sia di risultati esteriori che di sensazioni interiori.
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