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martedì 16 luglio 2019

Che cos'è la felicità e perchè siamo programmati dall'evoluzione per provarla raramente.

La felicità è ciò cui ognuno di noi aspira, indipendentemente dal genere, dall'età, dalla latitudine e dal tipo di società in cui viviamo.
Possiamo esser sicuri che tale obiettivo ha accompagnato l'uomo sin dalle sue origini: deve dunque essere qualcosa di intrinsecamente connesso con l'evoluzione, un processo che ci ha dato un qualche vantaggio competitivo.
Pur essendo qualcosa di estremamente soggettivo, apparentemente non legato ad alcun aspetto fisico (cosa che ne determina la difficoltà di misurazione), la sua assenza porta ad una sindrome depressiva con profonde conseguenze per il fisico dell'individuo, finanche alla morte.

Come possiamo allora definirla?

Spesso il termine "felicità" è stato usato come "richiamo" dalle diverse ideologie per attirare consenso.

Ottenere lo status di cittadino romano all'inizio della nostra era significava avere ottime possibilità di non finire schiavi e di vedersi riconosciuti dei "diritti" (a scapito di altri individui, bisognerebbe aggiungere) tra i quali quello di possedere qualcosa in maniera esclusiva.

Nel periodo convulso che seguì la caduta dell'impero romano, gli ordini monastici promuovevano una vita "tranquilla" ed appartata al fine di raggiungere una felicità interiore non basata sul possesso beni materiali (condivisione delle proprietà).

Il rinascimento identificava felicità con la conoscenza e l'arte: il cittadino di Firenze doveva essere orgoglioso di appartenere ad una comunità così ricca di sapere ed opere d'arte, disponibili alla sua vista in ogni momento perché ostentate dal potere.  Doveva sentirsi oggetto di invidia da parte degli altri abitanti della penisola non così fortunati.

La rivoluzione francese promosse un altro tipo di felicità: l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge ed eguali possibilità (teoriche!) di costruirsi un futuro.

Infine, le tre ideologie del '900 ne proposero significati diversi e contrastanti:
I nazionalisti ritengono consista nell'autodeterminazione politica dei popoli;
i socialisti ritengono sia da ricercarsi nella dittatura del proletariato;
i liberisti/capitalisti ritengono consista nella crescente abbondanza di beni disponibili, risultato della crescita ottenibile solo con il libero mercato.

Le nostre economie mature ci permettono oggi di "toglierci molti sfizi" rispetto ai nostri nonni od agli abitanti di paesi non altrettanto fortunati: quindi secondo la vulgata liberista dovremmo finalmente aver raggiunto tutti quanti la felicità.

Di questa affermazione non possiamo tuttavia essere sicuri: talvolta per essere felici basta ignorare che esista un tipo di vita diverso.
Un'amica che ha vissuto la propria infanzia negli anni '70 in Cina ricorda le privazioni e le difficoltà incontrate dalla sua famiglia, e non le rimpiange di certo!
Tuttavia quando racconta del capodanno cinese, festa in occasione della quale venivano distribuiti i vestiti nuovi che poi dovevano durare per tutto l'anno, le sue parole esprimono un sentimento di gioia così intenso provato in quell'occasione che l'abbondanza di oggi non è in grado di replicare.
Qualcosa di simile l'abbiamo verificato tutti nella nostra vita: sembrerebbe pertanto che l'aumento della disponibilità di beni materiali comporti un'attenuazione del grado di felicità che l'individuo è in grado di provare quando un suo desiderio venga raggiunto.
Una specie di processo di saturazione, una curva che cresce rapidamente e poi si adagia gradatamente su un piano.

Beau Lotto, il neuroscienziato che ha scritto il saggio "Percezioni", sostiene che siamo stati programmati dall'evoluzione per percepire soltanto cambiamenti: se questi sono piccoli (il mio reddito passa da 300.000 euro all'anno a 330.000, +10%) ci farò meno caso rispetto ad altri di egual valore ma diverso peso (il mio reddito passa da 30.000 a 60.000 euro, sempre 30.000 di differenza ma significa + 100%).
Quindi le reazioni umane agli eventi, la felicità nel nostro caso, sono proporzionate esclusivamente al "tasso di variazione".

Yuval N. Harari in "Sapiens" sostiene che la felicità dell'individuo dipenda dal rapporto tra condizioni oggettive e aspettative soggettive.
Questo spiegherebbe il paradosso di una infelicità crescente nelle odierne società opulente: mass media ed industria pubblicitaria spostano di continuo l'asticella delle nostre aspettative, rendendo di conseguenza più difficile godersi il momento in cui abbiamo soddisfatto un nostro desiderio. Appena ottenuto ciò che ci eravamo prefissi, ci propongono qualcosa di nuovo o di diverso.
Ma è questo il motore dell'economia capitalista: senza una continua crescita della domanda, si blocca lo sviluppo ed il sistema implode.

Di recente ho parlato del transumanesimo, e cioè la possibilità - uno scenario oggi altamente plausibile - di estendere la durata della vita umana attraverso la bionica, la biologia molecolare, interventi sul DNA, e così via.
Risultato potrebbe essere una nuova razza umana diversa dalla nostra, una possibilità tuttavia riservata a pochi.
Quale potrebbe essere l'influenza di una tale trasformazione sulla felicità degli individui?
Senz'altro chi ne sarà escluso sarà rabbioso nei confronti dei fortunati che potranno permettersi il costo di tali interventi.
Ma, loro "i transumani", saranno davvero più felici?

Penso che per rispondere a questa domanda basti guardare alla propria esperienza di vita: quando eravamo adolescenti il controllo genitoriale sulle nostre azioni (i nostri giochi, i movimenti) era sicuramente meno oppressivo di quello esercitato dai genitori di oggi sui propri figli.
Opinione comune è che "oggi i pericoli siano maggiori di una volta" mentre la realtà è esattamente il contrario.
Le società attuali hanno creato una serie regole "per la salvaguardia della sicurezza" che non esistevano fino a qualche anno fa.
Non c'erano le cinture di sicurezza sulle auto, guidavamo bici e moto senza casco, salivamo in 6 su un'utilitaria o sul cassone di un furgoncino non dotato certo di frenata assistita, servosterzo, e così via.
Facevamo le nostre esperienze: cadevamo, ci facevamo male, ma imparavamo dal "fare qualcosa".

Oggi succede il contrario: più che "a fare" a bambini e ragazzi si insegna "a non fare", a non mettersi in pericolo.
Nel mio post del 28 dicembre - intitolato "Igor Stravinskij ha modificato la corteccia cerebrale della cultura europea" - riporto la storia di Ben Underwood, un bimbo diventato cieco che ha sviluppato un "senso" nuovo, la capacità di ecolocalizzare oggetti ed ostacoli, potendo così muoversi in autonomia anche in bici.  Non sarebbe stato possibile senza la determinazione della madre a lasciarlo sperimentare, cadere e rialzarsi, rischiare!
La mia previsione è che "i transumani" - rapportandosi ad una durata (teorica) più lunga della loro vita - saranno angosciati dalla possibilità di non potersi godere questo vantaggio per un incidente stradale, una malattia, un attentato terroristico.
E l'angoscia è la negazione della felicità!

Torniamo ora all'inizio: abbiamo affermato che la felicità è una sensazione provata dall'individuo, temporanea ed infrequente, sicuramente risultato di una selezione evolutiva.
Le sensazioni di benessere che talvolta proviamo sono provocate non da fattori esterni, ma da meccanismi biochimici all'interno del nostro cervello che coinvolgono i livelli di serotonina, ossitocina e dopamina.
Sostanze chimiche che interagiscono con questi livelli (spesso definite "droghe") sono in grado di provocare felicità.
Tuttavia il nostro cervello è programmato per mantenere livelli di felicità quasi costanti attivando meccanismi di feedback.
Felicità ed infelicità - dice ancora Harari - hanno il ruolo di incoraggiare o scoraggiare sopravvivenza e riproduzione.
Il piacere provato nel compiere un atto sessuale deve per forza durare poco: altrimenti una soddisfazione persistente ci lascerebbe inebetiti e non ci preoccuperemmo di procurarci il cibo necessario a sopravvivere.
Ci sono poi individui "programmati" per provare felicità più intensa, o più frequente: gli ottimisti!
Sono persone affabili con cui ci troviamo bene perché vedono sempre il lato positivo delle cose: quindi con più possibilità rispetto ai pessimisti di instaurare rapporti matrimoniali stabili.
La correlazione individuata dalle ricerche di psicologia/sociologia "matrimonio stabile -> felicità individuale" nell'ottica della biologia sarebbe da ribaltare: "individuo ottimista -> felice più spesso -> maggiori opportunità di creare matrimonio stabile".
Altri invece fanno più fatica a raggiungere e mantenere a lungo sensazioni positive: il loro processi biochimici di feedback sono più efficaci e pertanto... "staccano prima la spina" della felicità.

Ma neppure la spiegazione "biologica" è sufficiente a descrivere nel complesso ciò che definiamo felicità.
Probabilmente si tratta di combinare biologia (cosa succede al nostro interno) con ciò che capita nel mondo esterno ed ha influenza su di noi.
Altrimenti il Prozac sarebbe la soluzione universale!

Daniel Kahneman, lettura suggeritami dall'amico Diego, prende ad esempio le cure parentali: oggettivamente sono incombenze pesanti, che una mente razionale cercherebbe di evitare.
Eppure quasi tutti i genitori traggono enormi soddisfazioni nel crescere un bambino.
Nella felicità deve per forza esserci una componente cognitiva ed etica: "se hai un motivo per vivere sopporti tutto" diceva Nietzche.
Lo scienziato che dedica la propria vita alla ricerca, il soldato che la sacrifica per la vittoria, il monaco che rinuncia a tutto per il bene supremo: forse - conclude Harari - la felicità sta nel sincronizzare le proprie illusioni personali sul senso della vita con quelle collettive prevalenti.

Richard Dawkins nel suo saggio "Il gene egoista" (del 1976) rilegge il comportamento umano, con le contraddizioni appena evidenziate, come risultato del tentativo dei geni di replicarsi: l'uomo non è che un burattino usato dai geni per replicare se stessi e sopravvivere.
Secondo la sua teoria è il gene il soggetto della selezione naturale, non l'individuo.
"I geni che vengono trasmessi sono solamente quelli le cui conseguenze servono per i loro stessi interessi, non necessariamente quelli dell'organismo (o della specie)"

Infine i buddhisti, come anche i biologi, sostengono che la felicità dipenda da eventi "interni" al nostro corpo, non da quelli esterni.
Tuttavia i primi - a differenza dei secondi - ritengono che erroneamente venga identificata la felicità con le sole sensazioni piacevoli (e quindi la sofferenza con quelle spiacevoli).
Conseguenza di tale errore, spendiamo gran parte del nostro tempo a ricorrere le sensazioni piacevoli che, come ha dimostrato la biologia, durano poco per effetto dei processi di feedback di cui abbiamo appena parlato.
Questa ricerca di uno stato di costante soddisfazione - impossibile da ottenere per cause fisiche - provoca nell'individuo ansia e disagio, frustrazione e quindi infelicità.

Per il Buddha la soluzione era una sola: dobbiamo renderci conto che le sensazioni sono effimere e non possiamo aver controllo su di esse.
Smettendo quindi di ricercare le sensazioni piacevoli, curiamo l'ansia e permettiamo alla nostra mente di fermarsi, rilassarsi e risultare così appagata.
Il suo insegnamento è "vivete nel presente invece di fantasticare su possibilità non realizzate: proverete serenità".
La felicità per lui dunque risulta indipendente dalle sensazioni oggettive (che è l'esatto contrario di quanto sostenuto dai biologi e dalle teorie "new age").
Per ottenerla dobbiamo rinunciare alla ricerca sia di risultati esteriori che di sensazioni interiori.



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