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mercoledì 27 febbraio 2019

Sovranismo e quote nazionali in musica.


La scorsa settimana ha fatto scalpore la proposta di legge della Lega relativa ad "una quota minima obbligatoria di repertorio musicale italiano che le emittenti radiofoniche sono tenute a trasmettere".
Si è subito parlato di sovranismo, di lesione della libertà di espressione, addirittura di razzismo musicale.
Qualcuno ha fatto notare che in Francia tale disposizione risale agli anni '80: ricordo di quel periodo l'operato dell' "association pour la defense de la langue francaise" e le assurde multe alle prime "Tea house" parigine, costrette così ad esporre un'insegna più "nazionale".


Ma cosa significa applicare una quota minima obbligatoria e quale ne sarebbero i vantaggi e le motivazioni?

Un primo significato potrebbe essere ricercato in un sorta di "protezionismo musicale" in senso economico: e cioè favorire il consumo della musica nazionale con l'intenzione di aumentare il fatturato delle case discografiche nostrane e le royalties percepite dai cantanti ed autori (come Davide Van de Sfroos ad esempio?) italiani.
Naturalmente il protezionismo lo si attua là dove c'è qualcosa cui "la nazione" tiene molto e rischia di esser travolto dalla globalizzazione: tipo una specifica produzione che crea occupazione e ricchezza, ma che posta in un contesto di concorrenza internazionale "senza barriere" rischia di scontare effetti disastrosi come disoccupazione e delocalizzazione.
Il rovescio della medaglia di tale strategia è che gli altri attori non stanno a guardare: se vedono colpiti i propri interessi reagiranno con misure protezionistiche proporzionate, applicate magari in campi dove sanno "di far più male" al paese che si è chiuso.
Siamo davvero convinti dell'utilità di difendere l'industria musicale italiana a scapito di altri settori (che potrebbero portare le conseguenze di questa scelta)?
E' un settore così rilevante per l'occupazione nazionale?

L’utilità del protezionismo e dell’autarchia è poi smentita dall’unico teorema matematicamente dimostrabile della macroeconomia: il teorema dei costi comparati.
Tale teorema dimostra la convenienza al commercio internazionale anche in un contesto nel quale in un paese il prezzo dei beni sia inferiore a quello di un secondo paese: dati ad esempio due beni, pane e vino, anche se in una valuta di riferimento comune il prezzo di entrambi risulti inferiore nel primo paese rispetto al secondo, converrà comunque lo scambio internazionale a condizione che il rapporto "prezzo vino / prezzo pane" abbia un valore diverso nei due paesi . 
Il “trucco” sta infatti nei rapporti tra i prezzi all’interno di ciascun paese: se una bottiglia di vino viene scambiata con 3 pagnotte in un paese e solo con 2 nell’altro, indipendentemente dai prezzi fissati in valuta, al primo paese converrà esportare pagnotte importando vino (ottenendo così in cambio di una pagnotta mezza bottiglia di vino, invece del terzo di bottiglia sul mercato interno) ed all’altro viceversa (servirà infatti solo una bottiglia di vino per ottenere 3 pagnotte invece della bottiglia e mezza necessarie sul mercato interno).

Se l'obiettivo è invece rilanciare la produzione nazionale che rischia di non esser conosciuta dai più giovani in quanto diluita in piccole dosi nei format radiofonici, quale sarebbe la reale efficacia di un provvedimento di questo tipo?
L'ipotesi sottostante - tutt'altro che scontata - è che radio e televisioni nazionali siano i veicoli principali attraverso i quali la musica viene ascoltata e fatta conoscere agli italiani.
Non c'è dubbio che fosse corretta nel secolo scorso, ma oggi?
La nostra politica dimentica spesso che oramai i contesti nazionali non sono più le cornici rigide del '900: i grandi attori dell'economia superano i confini nazionali ed agiscono nel cyberspazio dove i limiti sono determinati solo dall'infrastruttura.
Cosa vogliamo fare con youtube e spotify? Imporre anche a loro le quote? Ed in che modo?
Non possiamo "staccare la spina" soltanto ad alcuni servizi del web: o imitiamo Cina, Russia ed India, creando una rete internet nazionale, "sovranista", per la quale tuttavia dobbiamo farci carico dell'onere (costosissimo!) di realizzare piattaforme alternative a Google, Amazon, Facebook e compagnia bella, oppure, se non disponiamo delle ingenti risorse necessarie "per la difesa dei confini nazionali nel cyberspazio", ci dobbiamo arrendere alla palese impossibilità di controllarne i media.
Internet e tv satellitari sono i mezzi con cui i popoli oppressi da dittature si informano su cosa succeda "fuori dei confini": davvero se fosse così semplice controllare i media globali gli attuali dittatori non si sarebbero da tempo organizzati?
Se voglio ascoltare musica non italiana in fondo mi basta un PC, un telefonino, un tablet, Amazon Echo, una smart TV collegati ad internet o ad una parabola.

Ma non dovrebbero essere i gusti dei consumatori (ascoltatori) a determinare i palinsesti?
Cinema e televisioni hanno per decenni condizionato le nostre menti importando nella nostra cultura elementi estranei, tant'è che già la mia generazione sente come suoi valori originari della società americana più di quelli autoctoni (vedi mio post precedente sul culturalismo).
Senza questi elementi non sarebbe comunque nato il rock italiano e tutta la musica italiana di fine secolo.   Il valore non sta infatti nella purezza ma nel "meticciamento".
Perché una misura da parte di un governo democraticamente eletto dovrebbe agire come limite alla volontà personale senza un valido motivo?

Ritornando alla comparazione con la Francia, non dimentichiamo che l'azione dell'association DFL fin dalle origini è stata impostata ad ampio spettro: colpisce non solo la musica, ma tutto quanto può "degenerare" la lingua nazionale.
Vogliamo percorrere la stessa strada? E' una strategia vecchia di mezzo secolo e non ha prodotto effetti significativi sulla diffusione dell'inglese come lingua di riferimento nella UE (tant'è che i giovani francesi sono abituati a parlare inglese ed ascoltare musica inglese esattamente come i nostri).

Insomma, alla fine quella sulle "quote nazionali" mi pare una delle tante "sparate" dilettantesche di alcuni componenti di questo governo: ottime per richiamare l'attenzione e far notizia sui giornali, ma fondamentalmente "utopiche".

Facciamoci una ragione che dalla globalizzazione non c'è via di ritorno, e che questo potrebbe non essere il principale problema per noi italiani nei prossimi anni.
Un breve elenco di alcune situazioni che richiederanno decisioni politiche illuminate a breve:
1) l'irrilevanza, una condizione che nei prossimi anni caratterizzerà grandi masse di espulsi dal mercato del lavoro senza possibilità di reintegrazione o riqualificazione;
2) Intelligenze Artificiali in rapida evoluzione che svolgeranno compiti oggi di esclusiva competenza degli esseri umani; non solo sostituiranno lavoratori poco qualificati con robot, ma, solo per fare qualche esempio di cui già oggi esiste evidenza, i medici diagnostici (watson IBM), i chirurghi (robot specializzati), gli autisti (auto a guida autonoma), gli analisti finanziari (IA che decidono in autonomia a chi concedere un muto) e che addirittura un domani potrebbero diventare i consumatori dei futuri mercati, emarginandoci anche in un ruolo che sembra oggi inseparabile dall'essere umano;
3) biotecnologie evolute in grado di spostare il limite della vita in avanti. 
Per coloro che sopravviveranno alla selezione del mercato del lavoro e risulteranno pertanto ancora "rilevanti", potendo così continuare ad accumulare ricchezza, le opzioni per disporre di nuovi farmaci contro cancro e malattie degenerative, ricambi bionici, terapie per rallentare i processi di invecchiamento saranno sempre più numerose (vedi anche alla voce "transumanesimo", una ricerca sulle prospettive di un'evoluzione "accelerata" dell'essere umano condotta da Mark O’Connell nel suo saggio "Essere Macchina").
Tutto ciò ha un costo e solo chi potrà permetterselo ne avrà accesso: il risultato sull'umanità sarà che il solco tra i privilegiati e le masse diverrà ancora più profondo di quello scavato sinora dalle differenze di reddito: senza interventi correttivi andiamo verso una separazione tra "super uomini" (coloro che potranno aver accesso alle innovazioni tecnologiche e biologiche) ed un'umanità per la prima volta nella storia priva di un valore da spendere sul mercato, per la quale sarà necessario trovare una forma di sussistenza - tipo un reddito di cittadinanza ma finanziato da chi? - che contribuisca a scongiurare forme violente di protesta o addirittura la fine del "patto sociale".
4) raffinate tecniche di hackeraggio dei processi decisionali degli esseri umani: biologicamente siamo ingegnerizzati per sopravvivere in una savana.  Al contrario di quanto siamo portati a credere, il nostro cervello prende decisioni basandosi su processi biochimici.  Una volta decifrati, non sarà difficile per chi possiede mezzi ed adeguato know-how controllare le nostre emozioni creandone di artificiali.  In breve controllare dall'esterno la nostra volontà (e addio "libero arbitrio");
5) cambiamenti climatici. In proposito c'è ben poco da dire: a parte la confusione tra clima e meteorologia fomentata consapevolmente da una certa politica (il riscaldamento globale è un fenomeno che riguarda il clima nel lungo periodo mentre la meteorologia studia i cambiamenti nel breve periodo), il verificarsi di un cambiamento climatico radicale provocato fosse pure da fenomeni naturali - come successo più volte nella storia del nostro pianeta - in un mondo sovrappopolato e profondamente interconnesso avrebbe conseguenze disastrose per le nostre società.
Non dimentichiamo poi che l'Italia è un paese circondato dal mare: un innalzamento del livello delle acque dei mari anche di pochi centimetri colpirebbe l'economia italiana molto più di quella francese, tedesca, cinese o americana!

L'elenco è ancora lungo ed attende politici lungimiranti dotati di gran sensibilità che ne prendano atto, si circondino di persone competenti e si dedichino alla ricerca di nuove formule per costruire società stabili i cui membri si sentano soddisfatti.

Di sicuro sovranismo musicale non è una risposta a queste nuove sfide.




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