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mercoledì 13 febbraio 2019

Razzismo e culturalismo.

Ha significato chiederci chi abbia ragione nell’attuale dibattito se accettare o meno flussi migratori in Europa?
È giusto tacitare come razzisti coloro che sostengono si debbano fermare i flussi migratori che premono alle sue frontiere?
Il problema è molto più complesso di come appaia e merita di essere analizzato in dettaglio.
Yuval Noah Harari nel suo saggio “21 lezioni per il XXI secolo” ne propone un’interpretazione originale.
L’assunto originale dell’Unione Europea consta nel superamento delle differenze culturali tra i paesi aderenti: la generazione Erasmus ha sancito di fatto il raggiungimento di tale obiettivo.
Un ragazzo greco si troverà altrettanto bene a Roma come a Parigi, ed i tratti più marcati che ha ereditato dalla cultura del paese d’origine saranno tuttalpiù considerati come una piacevole specificità caratteriale.
Proprio il successo dell’Europa nella realizzazione di un sistema multiculturale fa da calamita per i flussi migratori che provengono da Africa e Medio Oriente.
In genere si pensa che sia la ricchezza della popolazione europea ad attirare i migranti, ma non è cosi.
I profughi siriani, gran parte dei quali appartenevano alla classe media del proprio paese, hanno preferito cercare di trasferirsi in Germania piuttosto che in Arabia Saudita, un paese musulmano con tradizioni simili alla Siria. La ragione si deve ricercare nel fatto che la Germania è in grado di assicurare una migliore accoglienza e possibilità di integrazione.
Sembrerebbe che il problema dell’immigrazione si possa inquadrare come un contratto con 3 condizioni (e confesso di aver fatto anch’io questo errore, vedi miei precedenti posts):
1. Il paese ospite consente l’immigrazione
2. I migranti devono accogliere norme e valori del paese ospitante e ripudiare i propri se in contrasto con questi
3. Se i migranti si integrano con il tempo diventano membri del paese ospite
In realtà a dispetto della semplicità apparente di queste affermazioni, dar loro un significato univoco è praticamente impossibile.
“Consentire agli immigrati di entrare” cosa significa in pratica? Avere obblighi morali non solo nei confronti dei rifugiati ma anche dei migranti economici? E fin dove si estenderebbe quest’obbligo morale?
Dobbiamo per forza accettare tutti? Anche chi non ha la fedina penale pulita? Oppure adottare dei filtri: in tal caso quali? Un credo religioso potrebbe essere un filtro? L’accoglienza è un favore o un dovere?
I migranti cui è concesso di entrare nel paese sono obbligati ad integrarsi: ma cosa significa in pratica? E fino a che punto? Persino in Europa esistono molte popolazioni con costumi diversi, valori e tradizioni: qual’è l’identità europea cui dovrebbero integrarsi se ogni stato europeo ha ancora la sua?
Qualora i migranti facciano un sincero sforzo di integrazione il paese ospite sarà tenuto a trattarli come cittadini di serie A
Ma dopo quanto tempo? Cosa dire degli Europei 2.0 (la seconda generazione che ha genitori immigrati ma sono nati in Europa)?
Dietro tutti questi interrogativi si nasconde la difficoltà di comprendere il concetto di cultura: possiamo affermare che una cultura sia superiore alle altre?
Saremmo portati a rispondere affermativamente: la cultura tedesca che ha accolto un milione di siriani è migliore di quella Saudita (anche perché in Germania sono garantiti i diritti umani)
Harari fa un esperimento mentale: immagina due paesi culturalmente diversi. Nel primo le persone vengono educate a considerare l’autocensura il modo migliore per risolvere i conflitti: gli sfoghi rabbiosi contribuiscono solo a radicalizzarli.
Nel secondo paese le persone vengono invece educate ad esternarli: meglio una bella litigata per esternare le proprie ragioni che interiorizzarle e covare risentimenti per lungo tempo.
Entrambi i metodi sono validi e presentano vantaggi e svantaggi.
Tuttavia proviamo a pensare cosa capiti a “migranti” tra i rispettivi paesi: i lavoratori integrati nel paese ospite saranno discriminati perché si comportano in maniera diversa dagli autoctoni, e difficilmente arriveranno a ricoprire ruoli dirigenziali contribuendo così a cambiare la mentalità dominante.
Non si tratta di razzismo ma di culturalismo.
Le accuse di razzismo che oggi vengono rivolte in realtà si riferiscono ad un fenomeno diverso, più liquido e meno definito.
Il razzismo si basava su un presupposto biologico che si è dimostrato errato: i neri e gli orientali condividono il nostro patrimonio genetico e quindi “all’origine” hanno le stesse chances di successo nella vita.
Tuttavia NON condividiamo tutti la stessa cultura. In alcuni casi non c’è ragione di adottare la cultura dominante, e talvolta non è proprio possibile!
La superiorità di una cultura rispetto ad un’altra può essere talora locale ma non oggettiva: lo abbiamo visto con l’esempio dell’esperimento mentale!
Inoltre spesso vengono sostenute affermazioni culturaliste cosi generali che hanno poco senso: “la cultura musulmana è più intollerante di quella occidentale”
Cosa significa la cultura musulmana? Quella del Pakistan di oggi? O quella dell’impero turco (all’interno del quale c’era libertà religiosa che mancava ad esempio in Spagna)?
Insomma oggi è sbagliato definire come fascisti e razzisti coloro che sono contrari all’immigrazione, come è sbagliato pensare che i favorevoli siano propensi al suicidio culturale.
Entrambe sono posizioni politiche legittime e le decisioni in merito alle politiche migratorie dovrebbero esser prese attraverso confronti condotti con procedure democratiche, senza radicalizzazioni pericolose.
Se gli Svedesi decidono di non accogliere profughi Siriani che la Turchia ha lasciato transitare per il proprio territorio è un loro diritto (mentre per la Turchia, confinante con la Siria è un dovere sancito dal diritto internazionale accogliere i rifugiati politici che chiedono ospitalità)
Riuscirà l’Europa a trovare un percorso che lasci aperte le porte agli stranieri senza farsi destabilizzare da chi non condivide i suoi valori?
In tal caso sarà un validissimo contributo a trovare una soluzione ai conflitti più seri che affliggono la civiltà globale.



L'amica Anna ha postato su FB un commento al testo precedente che riporto qui volentieri:
"Il termine multiculturalismo vorrebbe una società dove più culture, anche molto differenti convivono, rispettandosi reciprocamente tra loro (idea ripresa in chiave attuale in seguito ai fenomeni di globalizzazione - turismo, capitalismo e soprattutto immigrazione, ma che appartiene alla storia dell'umanità da sempre). L'interscambio comunque dovrebbe far sì che ogni cultura mantenga le proprie peculiarità,senza omologarsi a quella dominante. L'effetto paradossale è invece che le politiche multiculturali spesso oggi provocano l'aumento della frammentazione e la separazione delle minoranze.
Come ideologia esse si basano sul tutti diversi, tutti uguali (cioè ogni cultura deve essere considerata pari ad ogni altra), in realtà questa enfasi poi concretizza proprio nella pratica e nelle leggi (vedi legislazione francese sul divieto di visibilità culturale e religiosa) le differenze di cui gli immigrati sono portatori e trasforma così spesso in puro concetto astratto la capacità di relazionarsi sia dei migranti che delle società di accoglienza, sganciato dalla vita pratica delle persone e dalle condizioni socio economiche che sono il vero problema sociale a cui solo politiche sociali ed economiche nuove possono tentare di rispondere. 
La domanda è : quasi un fallimento, dunque?"

ho aggiunto la seguente chiarificazione, basata tuttavia su idee personali.

Il punto sottolineato da Harari è la difficoltà di riuscire a "comparare" culture differenti (per considerare due culture "pari" bisogna prima compararle)
Comparare significa misurare su una scala, ma quale tipo di misura si può utilizzare per una cul
tura?
All'inizio del '900 la questione razziale era più semplice: la razza bianca era considerata superiore alle altre per motivi biologici, quindi oggettivi.
Gli studi successivi sul DNA hanno dimostrato che l'assunto base del razzismo era falso, dunque dalla metà del '900 in poi parlare di razzismo è errato.
Le politiche discriminatorie sostenute da alcuni leaders - che spesso denigrano afroamericani, latini e musulmani - non si basano sulla credenza che esista un diverso DNA: "i neri commettono crimini non a causa del loro DNA ma perché provengono da sub-culture disfunzionali".
Trump quando parla dei paesi "shit holes" ne critica la cultura, non il DNA degli abitanti.
A differenza delle posizioni razziste, che possono essere invalidate da uno studio scientifico, quelle culturaliste sono più subdole e difficili da individuare con chiarezza.
Spesso sembrano affermazioni di buon senso ed i membri di una società tendono a condividerle (faccio qui una parentesi: in un mio post precedente ho sostenuto che ciò che più di ogni altra cosa tenga unita una comunità siano i "bias" cioè i pregiudizi: le comunità che condividono più pregiudizi sono quelle più solide)
Tali caratteristiche fanno si che tutti quanti siamo culturalisti, e con questo intendo che ognuno di noi (Europeo, medio orientale, africano, cinese, ecc ecc) ritiene che la propria cultura abbia il primato sulle altre, che sentiamo in qualche modo inadeguate per alcuni aspetti al nostro senso innato di giustizia.

Cosa può significare "rispetto reciproco tra culture diverse"?
La tradizione Wahabita prevede un'applicazione rigida della Shari'a che tra le altre cose implica una totale subordinazione della donna in ogni ambito.
Dovremmo forse rispettare usi, costumi e sentenze di morte per futili motivi commiate nell'Arabia Saudita evitando di intervenire "negli affari interni" per "rispetto reciproco tra culture diverse"? Fino a che punto?
Qualche anno fa una ragazza di Valenza aveva coronato il suo sogno sposando un Saudita di bell'aspetto ed ottima famiglia conosciuto in fiera a Basilea. Fino a che sono vissuti in Europa il comportamento del marito era esemplare. Tuttavia una volta trasferitisi in Arabia lei ha dovuto sottoporsi a leggi e costumi locali. Il marito, forse condizionato dalla famiglia o dalla società locale, ha finito per ripudiarla. Senza diritti e senza passaporto è rimasta un anno nel limbo fino a quando il padre italiano l'ha riscattata pagando più di un milione di euro alla famiglia dell'ex marito per poterla riportare in Europa.
Dovremmo censurare un tale comportamento nei confronti di un'europea ed astenerci da ogni giudizio qualora la moglie fosse di origini medio orientali?
Che dire del concetto di schiavitù? In molte parti dell'Africa ancora oggi è considerata una prassi normale: lo schiavo non si ribella anche quando ne ha l'occasione perchè ritiene che questo sia l'ordine naturale delle cose.

In conclusione ritengo che l'integrazione europea sia conseguenza di un processo durato secoli: non è tanto importante "la base culturale comune" (difficile persino da definire cosa sia di preciso) ma la scarsità di posizioni culturali difficilmente conciliabili presenti nei diversi paesi. Scarsità che è un risultato ottenuto solo negli ultimi anni.
La presenza di un solo paese in cui ad esempio sia considerata con atteggiamento anche solo neutro la schiavitù ne impedirebbe l'integrazione nell'UE.
Il caso della Turchia è esemplare: pur "modernizzato" lo stato Turco non è al momento compatibile con l'UE.
Sarà allora destinato a non esserlo mai?

Se l'assunto per l'integrazione a lungo termine è una progressiva riduzione delle specificità culturali che contrastano in modo inconciliabile con il senso di giustizia dei membri di una comunità, l'unica soluzione è il colonialismo culturale.
Le persone della mia generazione sono forse state le prime vittime di un condizionamento di massa da parte di un'altra cultura ottenibile con uso appropriato di mezzi di comunicazione.
La televisione negli anni '50 e '60 ha esportato il modello culturale anglosassone agendo su individui in fase di formazione.
Inconsciamente abbiamo adottato un modello culturale estraneo a quello locale ed oggi ci sembra "giusto" solo quello.
Negli anni '50 le donne italiane andavano a messa velate, esisteva il delitto d'onore, la società era manifestatamente maschilista, ecologia un termine sconosciuto.
Il condizionamento culturale spacciato come intrattenimento ci ha "ricondizionati", ed oggi sentiamo quegli aspetti della società italiana come "profondamente ingiusti".

L'integrazione resa necessaria dalla globalizzazione non può che passare da un condizionamento di questo tipo.
E non è detto che vincitori saranno i valori della nostra società attuale.

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