Mentre il mondo era travolto dall'inizio della Seconda guerra mondiale, nel buio e nel silenzio del proprio laboratorio, ricavato in uno dei locali dell'osservatorio astronomico svedese di Lund, Erik Holmberg realizzò la prima simulazione fisica di un fenomeno cosmico.
Sua geniale intuizione fu che le leggi della fisica potevano essere usate non solo per descrivere l’universo, ma anche per simularne l’evoluzione e prevederne il comportamento: una strada che con il successivo avvento del calcolatore elettronico porterà alla "computational cosmology" (1) oggi considerata la terza via della conoscenza scientifica accanto all’osservazione ed alla teoria analitica.
Nel decennio tra il 1930 ed il 1940 la comunità degli astronomi aveva oramai accettato il fatto che l’universo fosse immenso, molto più grande di quanto si pensasse in precedenza, e che, oltre alla nostra galassia, ne esistesse una popolazione quasi sterminata. (2)
Rimaneva tuttavia un mistero la loro dinamica interna: e cioè "come si muovono le stelle al loro interno, come si formano i bracci a spirale e, soprattutto, cosa accade quando due galassie interagiscono?".
Tali domande rimanevano senza risposta in quanto i modelli teorici a disposizione erano pochi e basati su semplificazioni estreme. (3)
L’astrofisica si trovava infatti in un periodo fertile (ogni numero delle riviste di settore portava nuovi articoli di grande qualità) ma sostanzialmente “bloccato”: le idee c'erano, ma mancavano i mezzi per metterle alla prova.
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Erik Holmberg (1908–2000) era a quel tempo un giovane astronomo svedese, dotato di una mente profondamente fisica e sperimentale che non si accontentava delle ipotesi qualitative: voleva piuttosto visualizzare in qualche modo cosa capitasse mano a mano che due galassie si avvicinino reciprocamente.
Il suo obiettivo era duplice: capire la dinamica delle interazioni galattiche, in particolare la formazione di strutture a spirale e code mareali, e trovare un modo per simulare la gravità (in un’epoca in cui nessuno poteva ancora farlo numericamente).
Ragionò così sul fatto che gravità e luminosità sono due fenomeni che seguono la stessa legge fisica dell’inverso del quadrato della distanza: raddoppiando la distanza dalla sorgente, sia l'attrazione gravitazionale che la luminosità diminuiscono di un valore pari ad 1 / r².
Gli sembrò pertanto possibile sfruttare analoghi fisici per sostituire calcoli impossibili da farsi con esperimenti tangibili.
A tal fine creò nel suo laboratorio due “galassie artificiali" disponendo per ciascuna di esse 37 lampadine sistemate su un grande tavolo scuro: ogni lampadina rappresentava una “massa stellare”, sulla quale posizionò un fotocellula in grado di misurare la quantità di luce proveniente dalle altre lampadine.
Comportandosi la luce come la gravità, la somma delle intensità luminose su ciascuna lampadina doveva rappresentare la forza gravitazionale risultante che agiva su quella specifica stella.
Holmberg usava poi i dati ottenuti per spostare leggermente le lampadine nella direzione in cui si esercita la forza, come se ciascuna stella venisse attratta dalle altre (4)
Successivamente ad ogni “passo temporale” (5) procedeva ad accendere di nuovo tutte le lampadine ed a misurarne la luce incidente, ripetendo poi più e più volte l'intero processo; ogni passo dell’evoluzione dinamica veniva dunque calcolato manualmente tramite luce e fotocellule.
Dopo molti cicli di misura e spostamento, le due “galassie” risultavano deformarsi a vicenda: iniziavano così a comparire strutture a bracci simili a quelle osservate nelle galassie a spirale reali; nello stesso tempo alcune lampadine/stelle risultavano venir spinte dalla gravità verso l'esterno, così come nell'universo reale si osserva una perdita di materia durante le interazioni gravitazionali.
Fu la prima simulazione fisica di una collisione galattica e ne risultò la dimostrazione che le forze mareali gravitazionali sono in grado di produrre le spettacolari deformazioni spiraliformi osservate nei telescopi.
Pubblicato nel 1941 con il titolo “On the Clustering Tendencies among the Nebulae”, l'articolo di Holmberg - dimenticato per oltre 30 anni - è oggi considerato il primo “N-body simulation” della storia, un punto di svolta nella comprensione della dinamica delle galassie che si completerà con le simulazioni digitali degli anni ’60–’70 di Toomre, Hohl, Miller e Prendergast.
Holmberg impiegava settimane per completare una sola simulazione: il suo “computer ottico” era infatti costituito da una stanza piena di lampadine, fili e sensori, tutti calibrati con estrema precisione che richiedevano un'attenzione maniacale per eseguire gli spostamenti indicati dai calcoli.
La motivazione profonda che lo spinse ad approntare ed utilizzare una tal sorta di apparato fu la ferma volontà di “vedere l’universo in azione”: più che “verificare una teoria” era interessato ad osservare un processo cosmico in modo diretto, anche se in miniatura, dove tavolo e lampadine rappresentavano una specie di universo in scala ridotta, un modo per rendere visibile l’invisibile. (6)
Curiosità teorica (voleva rispondere ad un problema aperto nella cosmologia osservativa), creatività sperimentale (trovò un’analogia fisica per simulare la gravità senza computer) ed estetica scientifica (cercava una forma visiva, quasi “artistica”, per rappresentare il comportamento delle galassie) ne fanno una figura a metà strada tra lo scienziato classico ed il ricercatore moderno: ragionava come un teorico, ma operava come un fisico sperimentale.
Il suo atto di immaginazione scientifica, mosso da una profonda fiducia nel parallelismo tra modelli semplici e realtà cosmiche, fu dunque atto di empatia intellettuale verso il cosmo: un tentativo di “guardare” le leggi gravitazionali all’opera in miniatura, quando nessuno ancora poteva farlo con un computer.
All’inizio degli anni ’70, quando l’ipotesi della materia oscura cominciò a ricevere una sistematica attenzione teorica ed i computer divennero sufficientemente potenti da supportare le prime simulazioni numeriche su larga scala, il metodo concettuale introdotto da Holmberg trovò una nuova applicazione.
Le sue “lampadine” furono sostituite da punti di calcolo che rappresentavano porzioni di massa distribuite nel cosmo, e la sua intuizione - che la gravità potesse essere simulata per comprendere la formazione delle strutture - divenne il fondamento stesso della cosmologia computazionale moderna.
Le simulazioni successive mostrarono come la materia oscura, attraverso la sua attrazione gravitazionale, abbia disegnato una rete invisibile di filamenti entro la quale la materia ordinaria si è addensata, dando origine alle prime galassie, agli ammassi e ai superammassi.
In questo senso, l’esperimento di Holmberg può essere considerato il punto di origine di un nuovo approccio metodologico alla cosmologia: non più soltanto osservare o descrivere l’universo, ma ricrearne l’evoluzione sotto vincolo delle leggi fisiche.
L’intuizione nata nel silenzio del laboratorio di Lund anticipò così di decenni una trasformazione epistemologica: la comprensione del cosmo come sistema dinamico modellabile, in cui la simulazione numerica diventa strumento di conoscenza al pari dell’osservazione e della teoria.
Note:
(1) Con il termine "cosmologia computazionale" - o più specificamente cosmologia numerica (N-body), la scienza che esplora l’universo non solo osservandolo o descrivendolo, ma ricreandolo virtualmente sotto le leggi della fisica - oggi ci si riferisce all’intero campo della cosmologia che utilizza simulazioni numeriche per studiare la formazione e l’evoluzione delle strutture cosmiche (galassie, ammassi, filamenti), la dinamica gravitazionale su larga scala, l’interazione tra materia oscura, gas e radiazione ed il confronto diretto tra modelli teorici ed osservazioni astronomiche.
E' riconosciuto come suo atto di nascita l’esperimento che Erik Holmberg condusse nel 1941 (simulazione fisica della gravità collettiva).
Dagli anni ’60 in poi, con l’avvento dei computer digitali, nacque il vero e proprio campo della "N-body cosmology”, cioè lo studio numerico di sistemi autogravitanti costituiti da molte particelle.
Negli anni ’80–’90 del secolo scorso tale termine si è evoluto in "computational astrophysics" (o "computational cosmology"), un campo di studi che oggi ha iniziato ad occuparsi anche di altri fenomeni quali l'idrodinamica galattica, le simulazioni della formazione delle prime stelle e l'evoluzione dell’universo su scala cosmologica.
(2) Nel XIX secolo, con l’avvento dei grandi telescopi riflettori, gli astronomi avevano cominciato ad osservare nel cielo alcune macchie nebulose che non risultavano esser né stelle né ammassi globulari.
Il primo disegno conosciuto di una galassia a spirale fu realizzato nel 1845 in Irlanda da Lord Rosse (William Parsons) quando puntò il suo telescopio - dotato di uno specchio da 1,8 metri e battezzato col nome di “Leviathan of Parsonstown” - in direzione della Nebulosa di M51, oggi nota come Galassia Vortice M51.
Successivamente altri astronomi, quali William Lassell ed Andrew Common, confermarono la presenza di forme simili in altre “nebulose” (ad esempio la M33 e la M81) ritenendo tuttavia si trattasse di oggetti astronomici facenti parte della nostra Galassia: vennero cioè interpretate come semplici “nubi” di gas all'interno delle quali si stessero formando nuove stelle.
Una voce fuori dal coro, precedente tali osservazioni di metà ottocento, era stata quella di Immanuel Kant che, insieme a William Herschel, riteneva le nebulose potessero essere “universi-isola”, e cioè sistemi stellari simili alla Via Lattea ma lontanissimi.
Ancora nel 1920 il famoso “Great Debate” vide coinvolti da una parte Harlow Shapley, che sosteneva la Via Lattea costituire l’intero universo all'interno della quale fossero da localizzarsi le nebulose a spirale, e dall'altra Heber Curtis, che invece sposava l’idea di Kant secondo la quale si trattava di vere e proprie galassie esterne.
Fu Edwin Hubble a risolvere definitivamente la questione nel 1924 usando il telescopio Hooker da 100 pollici del Mount Wilson Observatory, a quei tempi il più grande del mondo, quando, osservando la Nebulosa di Andromeda M31 insieme ad alcune altre, vi identificò la presenza di alcune stelle variabili Cefeidi.
Pochi anni prima Henrietta Leavitt, in forza presso l'Harvard College Observatory, aveva scoperto come la luminosità intrinseca di tali corpi celesti fosse legata al periodo di pulsazione, cosa che permette di calcolarne la distanza.
La misura originale di Hubble, pubblicata nel 1925, ritornò per Andromeda una distanza di oltre 900.000 anni luce - oggi sappiamo che quella corretta si aggira sui 2,5 milioni -, dunque l'oggetto osservato doveva trovarsi ben al di fuori della nostra galassia (il cui diametro non supera i 100.000 anni luce).
Negli anni successivi Hubble costruì anche la prima classificazione morfologica delle galassie, il rinomato “tuning fork diagram” (diagramma a diapason).
(3) Alla fine degli anni 30 le osservazioni di galassie in interazione, quali M51 e le Antennae, mostravano chiaramente bracci deformati e ponti di stelle, e si sospettava che questi effetti fossero dovuti alle forze mareali.
Gli studi teorici di Lindblad ed Oort sulla dinamica galattica avevano aperto nuove strade - la crescente convinzione era che le galassie fossero sistemi dinamici autogravitanti, non semplici distribuzioni statiche - ma mancava la verifica sperimentale, non esistendo a quei tempi uno strumento specifico in grado di svolgere in un tempo limitato i milioni di operazioni necessarie per calcolare le interazioni gravitazionali tra molti corpi.
(4) Il laboratorio di Holmberg era dotato di lampadine ad incandescenza di bassa potenza e di fotocellule al selenio, disposte su un tavolo largo circa 2 metri.
L’intero sistema era costruito artigianalmente, privo di alcun apparato elettronico automatico (dopo la guerra, le stanze dove condusse l’esperimento furono usate per corsi di ottica e meccanica celeste).
In questo contesto ogni nuova collocazione delle lampadine sul tavolo avveniva tenendo conto di due step: spostamento e deviazione.
Spostamento: assegnata una posizione iniziale a ciascuna lampadina, Holmberg aveva approntato una tabella calcolando per ognuna di esse direzione del movimento e velocità di spostamento.
Stabilito arbitrariamente un passo temporale di qualche milione di anni, spostava ogni lampadina lungo la direzione assegnata dalla tabella alla distanza che avrebbe percorso con quella velocità in quel tempo (si tratta del "passo di spostamento", drift step, ancora oggi passaggio chiave nelle simulazioni).
Deviazione: la traiettoria descritta dallo spostamento tiene conto di come si muoverebbe la stella/lampadina qualora non fosse soggetta ad altre forze, e cioè non esistessero nei pressi altre fonti di gravità.
Poiché invece tutte le altre stelle/lampadine agiscono perturbandone il moto originario, si rendeva necessario applicare un correttivo dovuto alla gravità (kick step o "passo di deviazione"): la direzione di movimento (e la velocità) originale di ciascuna stella risulta modificata dalla gravità esercitata da tutte le altre.
Holmberg procedeva pertanto a misurare l'intensità luminosa rilevata dalla fotocellula posta vicino a ciascuna lampadina (quale misura dell'intensità della forza gravitazionale esercitata in quel punto dalle altre lampadine/stelle) e la ricollocava sul tavolo tenendo conto di tale correzione.
Il processo poi ricominciava da capo prendendo la posizione attuale delle lampadine come posizione iniziale del nuovo step.
Certo nella realtà le stelle si muovono seguendo traiettorie curvilinee e non spezzate (come quelle create dal drift e kick step), ma se lo spostamento risultante è abbastanza piccolo queste ultime ne rappresentano una buona approssimazione.
(5) E' più che lecito chiedersi a questo punto cosa intendesse Holmberg per passo temporale nell’ambito del suo esperimento: "relativamente ad un tempo simulato, scandito da iterazioni manuali, l'intervallo tra una disposizione manuale delle lampadine e quella successiva a quale periodo di tempo reale corrisponde?"
Ogni configurazione (disposizione delle lampadine) rappresentava uno “stato” del sistema a un certo tempo t(n); Holmberg non aveva un’unità di tempo fisica come nei modelli digitali moderni (Δt in anni o Myr).
Il suo passo temporale era dunque un’unità arbitraria, corrispondente ad un aggiornamento completo delle posizioni secondo le accelerazioni calcolate nella configurazione precedente: misurava la luce (forza) su ciascuna lampadina, calcolava le nuove velocità e posizioni, spostava manualmente le lampadine e ripeteva la misura.
Nei suoi articoli pubblicati nel periodo 1941–1942, Holmberg dichiara come "ogni ticchettio dell'orologio" del proprio modello equivalesse all'incirca a decine di milioni di anni; poiché dopo neppure 20 passi temporali si ottenevano deformazioni nella forma delle due galassie e si osservava la formazione di “bracci” tidal, ciò significa che ciascun passo rappresenti, in scala fisica, un periodo di circa 10⁷–10⁸ anni a seconda dei valori del raggio e della velocità media assunti per le due galassie.
Più tardi, Holmberg stabilì una scala convenzionale: raggio galattico pari a circa 10 kpc e velocità orbitale tipica intorno ai 200 km/s ritornano un periodo orbitale pari a 3×10⁸ anni).
In base a questi preamboli, considerata una simulazione che copra 15–20 passi, ogni passo deve rappresentare circa 1/20 di un’orbita completa, quindi dai 15 ai 20 milioni di anni.
Negli anni ’60, quando Margaret e Geoffrey Toomre realizzarono le prime simulazioni numeriche delle interazioni galattiche usando all'incirca 100–200 particelle, scelsero un Δt specifico al fine di riprodurre esattamente la scala temporale che Holmberg aveva intuito empiricamente.
Il suo “passo manuale” anticipava il time-stepping discreto delle future simulazioni N-body digitali.
(6) In un’intervista degli anni ’70 affermò che ciò che lo spinse a quell'impresa immane fu “la curiosità di vedere se l’universo potesse essere riprodotto in laboratorio, anche con mezzi semplici: capire con gli occhi ciò che la mente immaginava".
In una lettera scritta al suo collega Herbert Rood raccontò della sua estrema soddisfazione per "esser riuscito a gestire tutto da solo!": determinare l'attrazione di ogni stella avrebbe richiesto calcoli la cui esecuzione con la tecnologia disponibile a quel tempo avrebbe richiesto un periodo corrispondente alla durata di una vita umana.
Anche se l'esperimento fu interrotto all'apparire dei primi bracci, oramai aveva dimostrato che galassie in rotta di collisione non si attraversano vicendevolmente, ma sono destinate a fondersi producendo eleganti forme a spirale.
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