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martedì 21 luglio 2020

Può il concetto di "male" aver costituito un vantaggio evolutivo per la nostra specie?

Lo scorso mese di settembre, in occasione del Festival della Mente di Sarzana, ho assistito alla presentazione del saggio "I geni del male" scritto da Valter Tucci, ex "cervello in fuga" rientrato da qualche mese in Italia grazie all'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova che lo ha chiamato a dirigerne il laboratorio di genetica.
Tucci è un ricercatore con un curriculum particolare: laureato in psicologia, si specializza in medicina trasferendosi negli USA dove lavora presso il dipartimento di anatomia e neurobiologia della Boston University.
Ottiene un incarico presso il prestigioso MIT, poi nel 2003 lascia gli USA per trasferirsi ad Oxford.
Nel corso della sua carriere ha avuto contatti con Dean Buonomano, neuroscienziato del quale ho parlato spesso nel mio blog (Tucci è stato editor di uno special issue cui entrambi hanno partecipato: https://royalsocietypublishing.org/toc/rstb/2014/369/1637 )

Un anno fa' avevo scritto un post dove veniva avanzata l'ipotesi che l'evoluzione avesse modellato il nostro cervello per far sì che lo stato di felicità ed appagamento si potesse raggiungere raramente e per brevissimi periodi, spingendoci così costantemente all'azione nell'intento di recuperarla.

Tucci, da parte sua, ritiene che persino un concetto astratto come "il male" sia un prodotto dell'evoluzione, la cui formulazione abbia permesso ai sapiens di superare limiti fisiologici imposti dagli ormoni ed assemblare così società di grandi dimensioni che li hanno trasformati in poche migliaia di anni nella specie dominante.

L'origine di tutto ciò è da ricercarsi nella "rivoluzione cognitiva", una importante fase dello sviluppo che ha interessato la nostra specie circa 70.000 anni fa.
Sino a quel momento la comunicazione verbale tra nostri progenitori non era diversa da quella che possiamo verificare ancor oggi tra i primati ed altre specie in grado di emettere suoni.
In presenza di uno stimolo - per esempio l'improvvisa apparizione di un predatore - un individuo del gruppo vocalizza un segnale di pericolo (cioè un suono specifico il cui significato è noto a tutti i componenti): a seconda del caso ogni individuo prende una decisione soggettiva sull'opportunità di "fight or fly" (combattere o fuggire).

L'evoluzione ha fatto sì che la percezione di un segnale di pericolo solleciti un livello di attenzione molto alto e stimoli una pronta reattività tra gli elementi del gruppo, mettendo spesso in atto una risposta fisiologica ad essa finalizzata.
Le reazioni istintive che ancor oggi interessano la maggioranza degli individui alla vista di "qualcosa che sembra" un serpente od un ragno traggono origine da questa situazione (*)

In seguito alla rivoluzione cognitiva, l'emersione di un concetto astratto di "male" ha portato come vantaggio quello di ottenere lo stesso risultato - alta attenzione e reattività - anche qualora lo stimolo non sia oggettivamente presente, ma venga semplicemente "raccontato": il racconto di una situazione pericolosa suscita un'emozione in grado di produrre lo stesso effetto di una situazione realmente vissuta (vedi ad esempio le sensazioni  prodotte in noi dalla vista di un film horror).

I componenti del gruppo possono pertanto immaginare una scena verosimile in cui si presenti una situazione di pericolo (la comparsa del predatore) mentre sono in piena sicurezza: ed esplorare mentalmente le opzioni a disposizione come reazione - il tutto senza l'urgenza di agire per la propria salvezza - comunicando le proprie conclusioni e confrontandole con quelle degli altri membri.   L'elaborazione di una strategia comune.

Tutto ciò fa seguito allo sviluppo sistema cognitivo ed all'articolazione di un linguaggio più complesso.
Il racconto dove il predatore rappresenta un pericolo per la comunità lascia spazio all'elaborazione del concetto di male, come di un "qualcosa di pericoloso" per l'esistenza stessa del gruppo.
Lo sviluppo dell' "idea di male" ha dunque costituito una vera e propria palestra per il cervello dei sapiens.

Un vantaggio che ne deriva è costituito dal fatto che immaginare e credere all'esistenza di uno spirito maligno permette un ulteriore avvicinamento tra i membri del gruppo.
I comportamenti controllati dagli ormoni, come avviene in genere per le altre specie, spingono verso un ordine sociale rigido e costituiscono un vero ostacolo all'incremento della numerosità del gruppo al di là di una certa dimensione.
Nelle specie che tendono a vivere in branco, quando questo cresce oltre un certo numero di componenti, notiamo come il maschio alfa non sia più in grado di gestirne la complessità: si assiste così all'insorgenza di un altro maschio alfa ed alla scissione del branco originale.
E' la dimostrazione del fatto che esistano limiti fisici alla crescita del gruppo ed all'aumento del suo potere, proporzionale alle sue dimensioni.

La diffusione della credenza relativa all'esistenza di uno spirito malvagio in grado di esercitare il male sui componenti del gruppo permette di raccogliere molti "credenti" intorno al leader: l'impulso aggressivo e dominante dei maschi alfa passa in secondo piano rispetto al timore di una entità potente, dalla quale i membri del gruppo stesso sono impossibilitati a difendersi.
La lotta tra il bene e il male si gioca cioè ad un livello metafisico del quale i singoli non possono esser partecipi.
Il concetto astratto di male ha pertanto prodotto meccanismi di autoregolazione ed accrescimento delle reti sociali.

Certamente non è esistito "un solo spirito maligno": è probabile che ogni tribù avesse sviluppato in autonomia le proprie credenze di pari passo con il realizzarsi della rivoluzione cognitiva che non interessò contemporaneamente tutti i sapiens in ogni parte del mondo da loro colonizzato.
Sorprendentemente, non sempre il fatto di credere a divinità diverse ha dato luogo a scontri o guerre di religione tra le società che venivano a formarsi: più spesso si sono creati equilibri la cui condizione era la presenza di grosse aggregazioni (pensiamo ad esempio agli imperi dove le diverse credenze erano tollerate, o l'ordine mondiale dove enormi società con credenze diverse cercano punti di contatto per evitare una conflittualità permanente.

Ed oggi che la credenza in qualcosa di metafisico come la divinità perde ogni giorno terreno?

Osserviamo come il pensiero ateo razionale abbia individuato una soluzione vantaggiosa per tutti: la moralità che ha permesso di mantenere strumenti sociali importanti come il senso di giustizia, le leggi e la condanna della criminalità, è che fa da base a quelle organizzazioni preposte a mantenere la pace e la tutela di tutti gli individui della specie.

Oggi spiritualità e credenza metafisica sono state lasciate alla scelta individuale, purché non in contrasto con la moralità.


Note:
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(*) l'ofidiofobia (paura dei serpenti) e l'aracnofobia (paura dei ragni) sono diffuse tra la maggior parte degli uomini, anche in regioni dove non esistono serpenti o ragni velenosi.
Gerd Gigerenzer nel suo saggio "imparare a rischiare" ci porta a riflettere su queste due paure chiedendoci se siano "iscritte nei geni" della nostra specie oppure no.
Il fatto che l'ofidiofobia la si ritrovi ad ogni latitudine potrebbe farci pensare che sia così; ma quei bambini che non hanno mai visto un serpente, non provano istintivamente paura.
E' sufficiente però che un adulto in sua presenza mostri di averne paura perché si attivi nel bimbo tale sensazione che lo accompagnerà per tutta la vita.
Le scimmie hanno reazioni simili: la vista per la prima volta di un serpente le intimorisce soltanto se altri individui mostrano panico. 
I ricercatori hanno provato a sostituire il serpente con altro stimolo, addestrando le scimmie più anziane a reagire come di fronte ad un rettile: non si è verificata la stessa conseguenza.
Pertanto, conclude Gigerenzer, questo tipo di paura è sì ereditata con i geni degli ancestors comuni a noi ed ai primati, ma necessitano di venir attivati da un comportamento di adulti della nostra specie.

Il neuroscienziato torinese Marco Tamietto fornisce invece una spiegazione alla reazione istintiva che attanaglia la maggioranza di noi alla vista di "qualcosa che assomigli ad un serpente": prima ancora di identificare la natura dello stimolo visivo, un sistema arcaico - molto più veloce di quello normalmente utilizzato per trasmettere informazioni dalla retina all'area posteriore del nostro cervello dove esse vengono interpretate - attiva un riflesso automatico che ci fa agire "d'istinto" (vedi "la visione cieca" di Marco Tamietto).
Questa scoperta lo ha portato a scoprire un modo per ridare (parzialmente) la vista a chi, colpito da ictus o degenerazione di una zona del percorso standard dove transitano le immagini, si trovi in situazione di cecità permanente le cui cause non sono da ricercarsi nell'occhio o nella zona di composizione delle immagini.




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