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sabato 21 marzo 2020

Italia e Cina: la crisi della democrazia liberale ed il diverso grado di efficacia nella risposta all'epidemia in atto

Nel giorno in cui l'Italia - superando la Cina - ottiene il non invidiabile primato mondiale di decessi causati da coronavirus, lo stesso nel quale ci si chiede perché anche qui non vengano adottate norme draconiane sul genere di quelle imposte ai cittadini di Wuhan e dell'Hubei, proviamo a fare qualche riflessione sulle diversità sociali e politiche dei due paesi.

L'Italia come tutti sappiamo è una democrazia liberale inserita geograficamente in un contesto - l'Unione Europea - che è composto da paesi con una storia ed un ordinamento costituzionale simili, la maggior parte dei quali vanta una lunga tradizione democratica.
Norme sul rispetto dei diritti del singolo cittadino, sul garantismo e sul "diritto alla privacy" spuntano le armi a disposizione di un governo che volesse "imporre dall'alto" limitazioni troppo stringenti alla libertà individuale.
Sono certamente previsti casi in cui emergenze specifiche possano condurre ad una contrazione temporanea della sfera di libertà dei singoli, ma si tratta di leve difficili da manovrare con disinvoltura da parte di una leadership.

La Cina invece non è affatto paese democratico, almeno non nel senso corrente che diamo noi oggi a questo termine.
La rigida struttura attraverso la quale il potere centrale esercita la sua azione di controllo sui cittadini ben si presta ad affrontare situazioni critiche che richiedano l'imposizione di limitazioni agli spostamenti, la chiusura coatta di attività imprenditoriali, la sospensione di servizi e l'adozione di norme stringenti.
Le nuove tecnologie basate sulla disponibilità di enormi quantità di dati personali, la cui raccolta nei nostri paesi è regolata e limitata dal GDPR, forniscono alla Cina uno strumento "non convenzionale" potentissimo nella battaglia contro il virus, ampiamente utilizzato.

E' solo il differente sistema politico a giustificare un diverso grado di efficacia nella risposta all'epidemia messa in atto dai due paesi?

Federico Rampini, nel suo libro uscito alla fine del 2019 ed intitolato "La seconda guerra fredda", ci fa partecipe della sua personale esperienza in qualità di corrispondente dalla Cina (fu a Bejing dal 2004 al 2009) nei rapporti con ministri e funzionari che occupavano posti chiave dell'amministrazione.
Nel capitolo intitolato provocatoriamente "la meritocrazia batte la democrazia?" svela una caratteristica del sistema attraverso il quale vengono reclutati e selezionati membri del governo e dirigenti della pubblica amministrazione. 

Per prima cosa l'autore ci fa notare come tutti i membri del governo cinese siano plurilaureati in materie scientifiche, in economia od in commercio; alcuni di loro sono addirittura ex top managers aziendali (Audi ad esempio). 
Una parte rilevante dei titoli in loro possesso sono stati conseguiti all'estero, in università americane ed europee, dunque in ambiti culturali diversi.
Nel periodo di osservazione, la percentuale di ministri e sottosegretari cinesi in possesso di Ph.D. si rivelò superiore rispetto a quella riscontrabile in un qualsiasi altro governo occidentale: non serve aggiungere che un paragone con l'attuale leadership italiana è deprimente.

Ma, aggiunge Rampini, il sistema meritocratico cinese non si fonda soltanto su titoli di studio - per quanto prestigiosi - o sull'esperienza professionale pregressa: per la scalata al potere è necessario aver conseguito risultati su gradini crescenti nel ruolo di amministratori pubblici.
Prima di arrivare ai vertici della nazione, è necessario dimostrare con i fatti di averci saputo fare nelle amministrazioni locali, migliorando durante il proprio mandato le condizioni economico sociali della popolazione prima nei centri più piccoli, poi nelle città ed infine nelle provincie.

La fuga di cervelli è stato un fenomeno che ha colpito in egual misura Italia e Cina: le prestigiose università americane hanno costituito per studenti di entrambi i paesi un mezzo per qualificarsi su mercati del lavoro in grado di pagare stipendi superiori rispetto alle retribuzione relative a posizioni omologhe nei paesi di origine.
Tuttavia la Cina, a differenza dell'Italia, è stata in grado di invertire tale flusso: offrendo a coloro che si fossero resi disponibili a rientrare in patria retribuzioni competitive, investendo ingenti somme nella ricerca e soprattutto offrendo loro "potere".  E cioè posti di comando.
Un meccanismo di cooptazione ai vertici che contraddice i nostri pregiudizi circa il sistema autoritario cinese.

Alla base di questa consuetudine c'è il recupero della filosofia confuciana: una classe dirigente selezionata non dagli elettori ma in base alla competenza.
Sono richiami all'antica "tradizione degli esami" il cui superamento era condizione per accedere alle alte sfere del mandarinato, ci ricorda ancora Rampini.
I cinesi oggi, a differenza che ai tempi di Mao, sono liberi di viaggiare all'estero, studiare negli USA o in altri paesi, scegliere di svolgere la professione che desiderano.
Nonostante ciò il sistema è sicuramente autoritario in quanto i dirigenti non sono scelti dal popolo e neppure indugiano - qualora si renda necessario - ad usare strumenti repressivi.
La sopravvivenza del sistema è, esattamente come in democrazia, legata al consenso di massa il quale, invece di provenire da un mandato elettorale, si basa sulle performances delle azioni di governo: i politici cinesi infatti sono giudicati da propri pari in base ai benefici che offrono alla popolazione.
I cittadini da parte loro devono ricambiare i vantaggi ottenuti con l'obbedienza alle leggi ed all'autorità.
Rampini definisce l'attuale regime cinese come "Confuciano-paternalista-autoritario-meritocratico".

E le social democrazie di tipo occidentale?

Anche il nostro sistema politico si basa sul consenso, che consegue dal riscontro del mantenimento della promessa di un continuo miglioramento relativo alle condizioni economico sociali dei singoli cittadini: a partire dalla crisi del 2008 tuttavia, tale promessa è stata in parte disattesa.
Aumento delle diseguaglianze, impoverimento delle classi lavoratrici, finanziarizzazione dell'economia, immoralità manifesta ed impunita di molti politici di prima grandezza.
Economisti, banchieri centrali, tecnocrati EU difensori del patto di stabilità: gli elettori di Trump, di Johnson e dei partiti populisti di casa nostra attribuiscono a questi "esperti" la responsabilità del disastro economico che è seguito alla crisi, e puniscono i partiti tradizionali che li hanno espressi e sostenuti con un voto di protesta.

Alla base del pensiero democratico c'è il principio secondo il quale, attraverso periodiche elezioni, nel tempo dovrebbe emergere la miglior classe dirigente: qualora quella attuale non lo sia (o non lo sia più), al termine del mandato si svolgono nuove elezioni che permettono ai cittadini con diritto di voto di mandare tutti a casa e scegliere una nuova leadership (che si spera migliore della precedente).
Oggi tale meccanismo ha dimostrato non funzionare più, cosa che possiamo verificare ogni giorno.

Qualcuno si è allora chiesto se l'attaccamento e l'estrema importanza che attribuiamo al sistema democratico - che oggi pare produrre classi dirigenti inette e disoneste - non siano il risultato di un'infatuazione nei confronti di un ideale: Daniel A. Bell, studioso canadese, ha pubblicato nel 2015 "il modello Cina: meritocrazia e limiti della democrazia".  
La complessità del mondo contemporaneo - sostiene nel testo - fa si che, come avviene all'interno delle aziende, non sia possibile affidare posizioni di comando a soggetti privi di esperienza; un sistema politico come quello cinese sarebbe dunque il  più adatto ad esprimere una classe politica pronta ad affrontare le nuove sfide che la globalizzazione ci ha presentato.

La crisi del modello occidentale di fronte all'emergenza.

L'attualità del coronavirus ci ha messi brutalmente di fronte alla crisi del nostro sistema politico: ci siamo così trovati  impreparati, con un governo formato da ministri inesperti proprio nei campi che dovrebbero padroneggiare, e dunque costretti ad affidarsi alle opinioni dei "tecnici" (alcuni dei quali, tra l'altro, recuperati nelle retrovie degli schieramenti di partito, e del tutto privi delle competenze vantate).
L'ambito scientifico, è bene ricordare, segue regole proprie che comportano una sfida continua tra sostenitori delle diverse ipotesi sul campo, tenzoni destinate a risolversi in seguito ad una rigorosa verifica sperimentale (che - non dimentichiamolo - richiede i suoi tempi).
Esempio ne sono i pareri - spesso in disaccordo - espressi da virologi e ricercatori medici, le cui posizioni sono state - almeno inizialmente - strumentalizzate dai nostri politici di opposti schieramenti, felici di aver trovato una nuova arena mediatica nella quale combattere.

La mancanza di una gerarchia che produca una voce unica di fronte all'emergenza, evitando così di disorientare i cittadini e di frastornarli con messaggi incoerenti, si concretizza nell'attuale fenomeno della disobbedienza alle norme più stringenti ("state a casa").

Alla nostra leadership è mancato il coraggio politico di "dire fin da subito le cose come stanno", nel tentativo maldestro di evitare una caduta di popolarità.

Per evitare il caos di queste settimane il presidente del consiglio, con voce unica, avrebbe potuto descrivere con sincerità lo scenario che attendeva il paese in mancanza di interventi, per quanto drammatico potesse apparire (una cosa alla Johnson insomma).
In seguito indicare con chiarezza tutti i provvedimenti che ritenesse necessario adottare per evitarlo, dettagliando gli obiettivi da raggiungere mano a mano con il coinvolgimento attivo dei cittadini.
Infine, giorno per giorno, la pubblicazione di un rapporto ufficiale redatto dalla presidenza del consiglio dove venga fatto il punto della situazione confrontandola con lo scenario peggiore ("quanti decessi abbiamo evitato intervenendo") e con gli obiettivi fissati ("numero dei decessi o contagi che nonostante gli interventi non siamo riusciti ad evitare"): questo in sostituzione dell'ormai consueto "bollettino di guerra" con morti e contagiati a cura della protezione civile, un qualcosa che da l'impressione di misurare una sconfitta.

Una procedura questa che avrebbe evitato ai cittadini di sentirsi confusi da troppe voci o raggirati, piuttosto di esser parte di un'azione portata avanti dalla comunità.
Questo è esattamente il sentimento che hanno provato (ed ancora provano) gli amici cinesi con i quali mi confronto.

Dunque in situazioni di emergenza è più adatto il sistema politico cinese?

Per dare una risposta a questa domanda è necessario ricordare che l'epidemia ha avuto inizio, forse nel mese di ottobre o novembre del 2019, nella regione di Hubei, in Cina.
Informate dai medici dell'ospedale di Wuhan nel corso del mese di dicembre, le autorità locali e regionali hanno cercato di nasconderne la portata imponendo il silenzio sui media e perseguitando proprio coloro che l'avevano segnalata tempestivamente.
Le dimensioni assunte in seguito dal fenomeno hanno poi impedito che un tale sopruso venisse insabbiato: il potere centrale è intervenuto (a fine gennaio 2020) con decisione ponendovi un argine, ed i responsabili sono stati rimossi dagli incarichi (le loro carriere definitivamente compromesse).

Non possiamo tuttavia esser sicuri del fatto che casi simili non si siano mai verificati in precedenza, casi nei quali l'onestà professionale delle persone coinvolte sia stata in mortificata dall'autorità.
Il rovescio della medaglia dell'autoritarismo è infatti anche questo: nonostante le indubbie capacità dei funzionari cinesi, quanto meno nell'affrontare la normale amministrazione, il presentarsi di un evento negativo eccezionale e non prevedibile nella zona di propria competenza comporta di fatto una penalizzazione della carriera.
Questa situazione spinge i responsabili a cercare di evitare con ogni mezzo una sua pubblicità, nell'intento di sfuggire al giudizio dei propri pari.
Anche a costo di danneggiare chi, come i medici di Wuhan, non faceva altro che il proprio dovere.






Ancora sulle differenze di reazione tra Cina ed Italia relativamente all'epidemia di Covid19.
Corollario al mio post del 20 marzo intitolato "Italia e Cina: la crisi della democrazia liberale ed il diverso grado di efficacia nella risposta all'epidemia in atto", dove tentavo un confronto tra gli approcci seguiti dai due paesi in base alla diversa efficacia riscontrata, vorrei segnalare l'articolo pubblicato su huffingtonpost.it del 23 marzo dal fisico Giorgio Parisi (presidente dell'Accademia Nazionale dei Lincei): "La lezione cinese non è solo divieti".

Parisi rimane sorpreso dalla diversa capacità di reazione all'epidemia tra Cina ed Italia, considerata la similitudine nei ritardi e negli errori commessi da entrambe le nazioni nella fase iniziale dell'epidemia:  prima un tentativo di insabbiamento, poi la fase di minimizzazione.
Quando a Wuhan i morti arrivano a 17 - il 22 gennaio - viene improvvisamente imposta dal governo centrale la chiusura totale della città insieme a  norme restrittive per gli altri centri della provincia che coinvolgono ben 50 milioni di persone!
Nel contempo vengono presi una vasta serie di provvedimenti che, nonostante enormi difficoltà logistiche nelle prime fasi di attuazione, portano l'epidemia a presentarsi in fase calante già alla metà del mese di marzo (dopo soli 40 giorni).

Tale velocità di reazione, sempre secondo Parisi, è resa possibile soltanto in presenza di un piano d'azione già pronto prima dello scoppio dell'epidemia.
E, riflette, non può esser che così in quanto la Cina ha già fronteggiato la SARS nel 2003, traendo una valida lezione da questa esperienza. 
A differenza del resto del mondo, che ha colpevolmente ignorato i molteplici avvertimenti da parte della comunità scientifica circa la concreta possibilità dell'insorgenza in un breve periodo di una pandemia ad origine zoonotica, non si è fatta cogliere impreparata.

In un primo tempo anche in Cina si sono riscontrate le difficoltà che viviamo in questi giorni: carenza di mascherine, di reagenti per i tamponi, sovraffollamento delle strutture ospedaliere esistenti.
Tuttavia l'aver avuto a disposizione un "piano d'emergenza" redatto in anticipo "a bocce ferme" ha facilitato la messa in atto delle contromisure, tagliando nel contempo i tempi necessari alla loro organizzazione.

Parisi si chiede il perchè, nonostante ci sia in Italia la possibilità concreta di copiare la strategia cinese dimostratasi vincente, manchi la volontà politica per attuarla.

Una strategia che si potrebbe riassumere in due mosse :

1) quarantena centralizzata: via dal proprio domicilio chiunque mostri sintomi della malattia.
La maggiornanza dei contagi, ci conferma l'esperienza cinese, avviene in famiglia.
In Italia le strutture alberghiere, oggi completamente vuote, possono fornire il luogo dove poter mettere in isolamento centinaia di migliaia di persone, tenendole nel contempo in osservazione da parte di personale sanitario.
Qualora il contagio diventi certezza, spostarli in strutture destinate ai soli contagiati sempre all'esterno degli ospedali, evitando così di ingorgare questi ultimi, fino a che non si renda necessaria un'ospedalizzazione dei soggetti per un aggravamento delle loro condizioni di salute.
2) L’identificazione dei malati.
Anche in Cina nelle prime settimane mancavano i tamponi ed i kit per rilevare la positività.
I criteri sui quali si basava la scelta su chi sottoporre ai tamponi erano due in ordine di importanza: casi con sintomi della malattia in primo luogo ed a seguire soggetti che hanno avuto contatti stretti con ammalati.
In un primo tempo tamponi al resto della popolazione venivano fatti raramente.
Tuttavia tra il 17 ed il 19 febbraio "...viene fatta una visita a domicilio a tutti i dieci milioni di abitanti di Wuhan, ed è stato fatto il tampone a tutte le persone che avevano febbre o tosse.  Nella sola Wuhan diecimila persone erano erano state mobilitate per rintracciare tutti i possibili contatti stretti degli ammalati e prendere gli opportuni provvedimenti...".

L'articolo originale lo trovate al seguente link:
https://www.huffingtonpost.it/entry/la-lezione-cinese-non-e-solo-divieti_it_5e789a6fc5b6f5b7c547b1b3?utm_hp_ref=it-homepage


La lezione cinese non è solo divieti
Più passa il tempo, più si rimane colpiti dalla quasi incredibile capacità che la Cina ha avuto nel reagire con successo contro l’epidemia.
Col senno di poi il motivo è chiaro: la Cina aveva debellato con successo la Sars e i cinesi avevano ben imparato la lezione: quando il potere centrale si è reso conto della situazione, ha agito con la prontezza di chi aveva i programmi pronti.

Anche loro hanno commesso i loro errori.
Nei primi dieci giorni di gennaio il Governo locale ha tentato di insabbiare tutto, nella seconda decade di gennaio si è passati alla fase di minimizzazione (un poco come da noi con #èpocopiùdiunabanaleinfluenza).
Il 20 gennaio la situazione cambia: la Commissione Sanitaria Nazionale esprime per la prima volta la certezza che la trasmissione avveniva tra uomo a uomo, il numero delle persone in quarantena passa da cento a mille. Contemporaneamente la posizione ufficiale diventa molto chiara: “Chiunque nasconderà nuovi casi sarà inchiodato per l’eternità alla colonna della vergogna”.
Il 22 sera, quando i morti arrivano a 17, viene decisa la chiusura di Wuhan e altre città, coinvolgendo 50 milioni di persone.

La macchina organizzativa cinese parte alla grande, anche se con enormi difficoltà logistiche.
I pochi che come me leggevano il raccomandabilissimo sito di informazione ufficiale cinese, https://ncov.dxy.cn/ncovh5/view/pneumonia (scritto in cinese ma usando google translate per la traduzione) ricorderanno il dramma delle mascherine mancanti, le fabbriche riconvertite d’urgenza alla produzione di mascherine, la carenza dei kit per fare test, il sistema ospedaliero al collasso, le file di ore di più di mille persone per fare i tamponi.
Sul piano strettamente pratico erano impreparati, ma avevano il vantaggio di sapere cosa dovevano fare e l’hanno fatto con decisione e con un successo insperato.

Prendere l’esempio dalle misure di contenimento cinesi sembra essere la strada maestra: è quello che si è fatto prima in Italia e poi nel mondo. Purtroppo, non solo i provvedimenti sono stati presi in ritardo, ma ci siamo limitati a quelli più appariscenti: i divieti.
Infatti il Governo cinese non solo ha proibito tante attività, ma ha anche fatto un enorme sforzo in positivo.
Tutti coloro che lavorano nelle strutture sanitarie stanno facendo sforzi eroici in situazioni estremamente rischiose e difficili con risultati incredibili, come l’aumento vertiginoso della sale di rianimazione; a loro va tutta la nostra profonda ed eterna gratitudine.
Ma al di fuori degli ospedali l’attenzione dei media e dei politici è concentrata sui divieti: tutti divieti giusti, non fraintendiamo, ma non basta.
Bisogna mettere in campo azioni positive appropriate e su questo stiamo andando a rilento.

Cosa sappiamo delle misure di contenimento cinesi al di là delle varie proibizioni?
Ben poco: l’ospedale costruito in dieci giorni, ma la lista finisce lì.
Questa lacuna viene fortunatamente colmata da un bellissimo articolo su Scienza in Rete di Michele di Mascio, in cui si presenta il resoconto di una conferenza fatta ad Harvard dall’epidemiologa Li Xiong dove si analizzano i provvedimenti positivi che il Governo cinese aveva messo in campo per bloccare l’epidemia: c’è anche il link alla conferenza interessantissima e le slide.
Le azioni positive intraprese in maniera coordinata sono tante e secondo la professoressa sono state fondamentali per il contenimento.
Riassumiamo le più significative.

1) La quarantena centralizzata.
Ieri, il 22 marzo, il presidente del Consiglio Superiore della Sanità Franco Locatelli, durante la conferenza stampa delle 18 ha lungamente esortato a fare ogni sforzo per ridurre i contagi nelle famiglie attenendosi nella maniera la più scrupolosa possibile alle disposizioni ufficiali.
La raccomandazione è giustissima: il posto più pericoloso per prendersi la malattia è la propria casa.
In Cina il 77% delle persone sono state infettate da conviventi.
Tenere le persone in quarantena con le proprie famiglie è rischioso: la quarantena serve per ridurre al minimo i contatti, ma sfortunatamente non è facile gestire una quarantena rigorosa nella propria casa.
A Wuhan, ben consapevoli di queste difficoltà, dal 1 febbraio, quindi solo otto giorni dopo la chiusura, hanno incominciato a istituire strutture di quarantena centralizzate, utilizzando alberghi e dormitori per studenti.
Le persone sospette, ovvero tutte quelle che avevano sintomi riconducibili alla malattia, e i loro familiari venivano spostati in strutture centralizzate. Ovviamente non dovevano uscire dalle loro stanze singole e gli veniva portato da mangiare, prendendo tutte le precauzioni per evitare il propagarsi dell’infezione.
Se poi qualcuno risultava positivo al virus, veniva spostato in strutture provvisorie (ricavate a volte negli stadi) dove veniva curato per poi essere trasportato negli ospedali regolari solo se si aggravava.



Inoltre il personale sanitario, a rischio di malattia, non alloggiava nelle proprie case, ma dormiva in strutture simili a quelle usate per la quarantena.
Sempre citando Li Xiong, sono stati immensi i vantaggi forniti da un sistema di quarantena centralizzato rispetto alla quarantena domiciliare:
• I pazienti infetti, i casi sospetti, i loro contatti avevano un minore probabilità di infettare le altre persone della famiglia, riducendo la trasmissione del virus.
• I pazienti potevano ricevere subito le prime cure da personale esperto riducendo in tal modo la severità della malattia fin dallo stadio iniziale e diminuendo il peso sugli ospedali tradizionali che erano oberati di lavoro.

2) L’identificazione dei malati
Nella strategia cinese ha anche giocato un ruolo fondamentale identificare tutti i potenziali ammalati e sottoporli a un test per scoprire la presenza del virus: anche lì i tamponi scarseggiavano ed erano state stabilite delle priorità:
• Prima priorità: casi sospetti, ovvero con i sintomi riconducibili alla malattia.
• Seconda priorità: contatti stretti degli ammalati.
• Terza priorità: resto della popolazione, a cui però i test erano fatti molto raramente.
Inoltre, sempre a Wuhan, dal 17 al 19 febbraio, durante la fase calante della malattia, è stata fatta una visita a domicilio a tutti i dieci milioni di abitanti di Wuhan, ed è stato fatto il tampone a tutte le persone che avevano febbre o tosse.
Nella sola Wuhan, ancora, diecimila persone erano erano state mobilitate per rintracciare tutti i possibili contatti stretti degli ammalati e prendere gli opportuni provvedimenti.

Che si fa in Italia?
Sfortunatamente siamo ben lontani dal solo pensare di prendere iniziative di questa ampiezza per andare nella direzione della quarantena centralizzata. Ci sono iniziative sporadiche: ieri è stato requisito un albergo per 300 persone in Lombardia, ma non sono questi i numeri necessari.
Se non s’interviene con progettualità e decisione rischiamo di non riuscire a spezzare il contagio più insidioso, quello casalingo.
Dobbiamo essere in grado di fornire a tutti la scelta di poter fare la quarantena in strutture dove ci si può mettere in quarantena senza il pericolo di infettare altri, specialmente i propri cari.
Bisogna fare un piano, mettere su la struttura organizzativa. Le risorse si trovano.
Siamo circondati da una miriade di alberghi vuoti, dove potrebbero essere messe le persone in quarantena e il personale necessario non manca di certo. Tuttavia sarà fondamentale rispettare in maniera ossessiva le necessarie cautele sanitarie per evitare che queste strutture possano trasformarsi in luoghi di propagazione del contagio: un rigoroso controllo sanitario è assolutamente indispensabile.
Sono misure imponenti, anche di impatto positivo sull’economia, ed è fondamentale incominciare il più velocemente possibile.
In Cina ci sono state duecentomila persone contemporaneamente in quarantena. Usando gli stessi criteri in Italia dovremmo mettere mezzo milione di persone in quarantena.
Lo sforzo organizzativo è spaventoso, capisco che qualcuno possa spaventarsi all’idea di tenere nelle strutture alberghiere italiane una simile folla, passandole vitto e alloggio, tuttavia penso che sia meglio fare di tutto per poterne metterne il maggior numero in una quarantena centralizzata, piuttosto che prolungare la durata dell’epidemia.
Più misure efficaci verranno prese, più velocemente usciremo da questo incubo e riusciremo a eliminare il contagio dall’Italia.







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