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mercoledì 8 maggio 2019

Un film ci fa riflettere sulle conseguenze a lungo termine dell'intolleranza in politica. "Attacco a Mumbai, una vera storia di coraggio": i fatti del Taj Mahal 2008



In questi giorni viene proiettata la pellicola "Attacco a Mumbai, una vera storia di coraggio" che ripercorre la vicenda degli attentati che hanno insanguinato Mumbai, capitale economica dell'India, il 26 novembre 2008.
A partire dalle 22.30 di quella sera, 16 terroristi islamici hanno attaccato simultaneamente 10 obiettivi civili, tra i quali 2 hotels di lusso, una stazione ferroviaria, un ospedale, un centro studi ebraico, un teatro ed una caserma della polizia.
In totale le vittime sono state 195, cui si aggiungono 300 feriti, la maggioranza delle quali di nazionalità indiana (137), seguiti a distanza da americani (6), israeliani (4), tedeschi (3) ed anche un italiano.
I terroristi uccisi sono stati 15, uno solo è stato catturato vivo. 
La loro provenienza sembra sia pakistana (da uno dei telefonini risulta partita una chiamata verso tale paese), ma in una nazione con una popolazione delle dimensioni di quella indiana è comunque difficile risalire alle singole identità.

Il film si concentra sull'aggressione all'hotel Taj Mahal, simbolo turistico della città, e sull'abnegazione del suo personale che invece di scappare attraverso le entrate di servizio, note e facilmente accessibili, è rimasto sul posto per aiutare l'opera di evacuazione degli ospiti, pagando così un alto prezzo in vite umane.
Al termine dei blitz per la liberazione dei 610 ostaggi effettuati dalle forze speciali indiane, dopo ben 60 ore, la conta delle vittime ha rivelato che la metà erano dipendenti dell'hotel.

Gli attentati sono in seguito stati rivendicati con una email alle agenzie di stampa da parte di un gruppo fino a quel momento sconosciuto, i Deccan Mujahideen, dietro i quali i servizi segreti occidentali vedono la mano di Al-Qaida.
Tale congettura è rafforzata dal fatto che testimoni hanno riferito come i terroristi stessero cercando "persone con passaporto britannico" (nel film si parla invece di passaporto americano) e che tra gli obiettivi ci fosse un centro di cultura ebraico.

Sembrerebbe quindi un altro attacco alla civiltà occidentale, tipo la distruzione del WTC di NYC, perpetrato in un paese "meno organizzato", dove le probabilità di successo di un atto terroristico sono più alte.
In questo nuovo post vorrei parlare di una tendenza che porta parte dell'opinione pubblica dei paesi occidentali - soprattutto quelli europei - a ritenersi, a causa del colonialismo, responsabile di fatti anche temporalmente lontani, ed a leggere in maniera errata gli eventi contemporanei.
Federico Rampini nel suo libro "Le linee rosse" parla di un "complesso di superiorità della civiltà occidentale", da cui deriva un "complesso di colpa", che ci induce a pensare che il fondamentalismo islamico "ce l'abbia solo con noi a causa delle malefatte d'epoca coloniale".

La visione del film, prodotto da una casa cinematografica australiana, richiama in modo quasi subliminale questa tendenza.

Nelle scene girate, la voce al telefono che guida il gruppo dei 16 terroristi mentre attraversano la città ricorda loro di confrontare la ricchezza di Mumbai (ville, edifici, teatri, ristoranti, parchi) con la povertà delle loro città natali, ed afferma perentoria: "loro ci hanno preso quello che è nostro".
Il riferimento è alla separazione dell'India dal Pakistan, avvenuta nel 1947.
Prima di questa data indù e musulmani dividevano gli stessi territori, pur mantenendo le proprie tradizioni.
La visione del mahatma Gandhi non contemplava una separazione in seguito all'indipendenza: Nehru, suo delfino politico, si rese conto che la creazione di una teocrazia islamica in un'area confinante avrebbe potuto comportare un'implosione dell'India intera e si oppose fortemente.
Tant'è che la politica sua e dei suoi eredi per 30 anni è stata quella di emarginare gli integralisti indù proprio per evitare conflitti religiosi, ed addirittura tollerare leggi separate per la comunità islamica.
La rivendicazione di un territorio esclusivo è stata fortemente voluta dalla minoranza musulmana, che ha votato in massa per la "Muslim League" nel 1947: la conseguenza è stata una carneficina da un milione di morti ed undici milioni di rifugiati, la più grande migrazione umana avvenuta in un periodo di tempo limitato.

Il conflitto tra indù e religione musulmana è preesistente alla colonizzazione europea.
La penetrazione islamica nel subcontinente indiano risale ai primi anni del 700 DC, quando i generali arabi si spinsero fino ad attaccare il Rajasthan.  
La convivenza delle due culture, tra alti e bassi, continua sino all'inizio del 1700 quando l'imperatore Moghul (sunnita) Aurangzeb ordina la distruzione dei templi induisti, la persecuzione dei Sikh e dei musulmani sciiti.
Da allora gli scontri e le faide tra le comunità sono continuati sino ad oggi.
Basti pensare che il Taj Mahal - il palazzo costruito ad Agra nel 1500 da un sultano Moghul per ricordare la moglie (da cui prende il nome l'hotel di Mumbai) - è la bellezza indiana più visitata in assoluto. 
Eppure nel 2017 l'attuale governo indiano, dominato dal partito induista nazionalista di Narendra Modi, ha tagliato i fondi per la sua manutenzione in quanto "non riflettente la cultura indiana".

Dall'indipendenza del Pakistan, si è combattuta una guerra a bassa intensità tra due stati che possiedono entrambi armi atomiche.  Attentati, bombardamenti, guerre lampo sono una costante, anche se non hanno risonanza mediatica qui in occidente.

I fatti del 2008 non sono che un piccolo capitolo in questa guerra tra due antiche religioni, due modi incompatibili di concepire la società: l'apparente eccezionalità sta nella contemporaneità con gli attentati di Al-Qaida che hanno insanguinato l'occidente.
Tuttavia, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è Al-Qaida ad aver ispirato le azioni di Mumbai: semmai i gruppi jadhisti hanno offerto supporto logistico ed addestramento ad una fazione nel contesto di una lotta che prosegue da più di 300 anni.
La cui causa, non dimentichiamolo, è stata l'insorgenza di un improvvisa ed immotivata intolleranza da parte di una classe dominante (i Moghul) che per 1000 anni aveva regnato su indù, zoroastriani, cristiani e musulmani (sciiti e sunniti) in pacifica convivenza tra di loro.

Oggi come allora soffiare sull'intolleranza e sul nazionalismo da parte di una élite politica può comportare conseguenze negative che continueranno a manifestarsi in tempi lunghissimi.

Per evitare grossi guai bisognerebbe imparare dalla storia (e non solo da quella occidentale).

 


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