Nel suo ultimo libro "Nexus" lo storico, filosofo e saggista israeliano Yuval Noah Harari offre la propria interpretazione al conflitto arabo israeliano analizzandolo dalla prospettiva dei "miti fondanti" di entrambe le comunità.
Già nelle precedenti pubblicazioni "Sapiens" e "Homodeus", Harari identifica nei "miti" la componente essenziale della cooperazione umana su larga scala ("... le immense società che sono venute a formarsi in periodo storico costituite da miliardi di individui ..."), indispensabile a creare legami intersoggettivi che trascendono fatti oggettivi.
La nostra specie si sarebbe infatti affermata come dominante proprio in funzione della sua capacità di creare reti narrative condivise - e cioè “fictions” quali le nazioni, le religioni, il denaro e pure i diritti umani - che, pur esistendo soltanto nella nostra immaginazione, producono effetti concreti e cooperazione di massa.
Solo grazie a tali "ordini immaginari" persone completamente sconosciute possono trovarsi a collaborare (“... due cattolici che non si sono mai incontrati possono unire gli sforzi perché entrambi credono in Dio incarnato ...”).
In una tale visione le società bilanciano due esigenze contrastanti: ordine, ottenuto tramite narrativa coerente, e verità, che emerge tramite fatti documentati ed attenzione alla realtà concreta.
Le narrazioni mitiche svolgerebbero pertanto la funzione di semplificare la realtà, talvolta distorcendola, ma consentendo così la coesione: "documenti" quali testi, leggi e burocrazia svolgono funzioni di controllo e provvedono a creare la struttura, ma possono trovarsi a sacrificare la verità pur di garantire la stabilità.
Oggi la tecnologia, anziché ridurre i miti, ne moltiplica la diffusione: social media, intelligenza artificiale e sorveglianza informatica diventano grandi megafoni di narrazioni, vere o false che siano, amplificando divisioni e potere.
Il denaro, i diritti umani, le nazioni e le religioni, pur essendo convenzioni funzionano perché la maggioranza continua a crederci: e c'è tutta la convenienza a credere nella loro realtà perché altrimenti le cose non funzionerebbero tra estranei (con una banconota puoi comprare qualcosa oppure nulla a seconda che sia in corso legale o andata fuori corso).
In una tale visione i miti non costituiscono riflessi della realtà ma sono strumenti di potere, ed ecco dunque la conclusione di Harari: “... verità e potere viaggiano insieme solo in parte; chi cerca potere alla fine diffonde finzione ...”.
Pur svolgendo la funzione di "collante invisibile della civilizzazione" - Harari li definisce quali "... immaginari condivisi che ci permettono di cooperare, organizzare e dominarci collettivamente ..." - allo stesso tempo essi distorcono, polarizzano e giustificano poteri.
Pertanto emerge, quale compito fondamentale dell’intelletto cosciente, l'utilizzare i miti con consapevolezza: scoprire quando servono l’ordine e quando invece costituiscano narrazioni da decostruire.
Nel caso della società israeliana Harari identifica, quale mito fondante, una poesia di Hayim Nahman Bialik insieme ad un racconto di Theodor Herzl, scritti entrambi nei primissimi anni del secolo scorso.
Nei mesi successivi il pogrom di Kishinev del 1903 in Bessarabia (dove circa 50 ebrei furono uccisi e centinaia di donne violentate), Hayim Nahman Bialik scrisse "In the City of Slaughter”, una lirica potente che denunciava al contempo violenza antisemita e la reazione passiva degli uomini ebrei - descritti come “topi terrorizzati” - che si rifugiano nella preghiera anziché difendere i propri cari.
Questa poesia divenne in seguito un elemento culturale fondante per il sionismo militante, spingendo molti ebrei a superare la propria tradizione pacifista ed a costruire le potenti forze armate di cui dispone oggi lo Stato di Israele.
Negli stessi anni Theodor Herzl - giornalista, attivista, drammaturgo, scrittore e avvocato ungherese di religione ebraica - scrisse un racconto intitolato "Altneuland" (“Vecchia Nuova Terra”) nel quale immaginava un futuro Stato ebraico fondato in Palestina, costruito secondo i principi del progresso scientifico, della tolleranza e della cooperazione interetnica.
Si tratta di una visione utopica, dove tale stato risultava esser democratico, laico, pluralista e multiculturale (dotato di ferrovie elettriche ed agricoltura moderna) dove gli arabi palestinesi non erano stati espropriati, ma coinvolti nei benefici del progresso economico e civile (l'intera visione si fonda sull’idea che la rinascita ebraica coincida con il bene di tutti, un'idea profondamente ottimista ed universalista) cui fa suggello la famosa frase "... se lo vorrete, non sarà un sogno ..." che diventerà lo slogan del movimento sionista, usato nei congressi e poi dello Stato di Israele, scolpita anche sulla tomba di Herzl.
Harari ci fa notare che "Altneuland" è un mito performativo: non un’analisi realistica, ma una proiezione normativa di ciò che dovrebbe accadere.
Il romanzo è servito da cornice identitaria e politica per un intero movimento, ha costruito consenso, ispirato pionieri e giustificato la costruzione dello Stato di Israele.
Tuttavia, nonostante Herzl immaginasse una coabitazione pacifica tra i due popoli, il mito sionista che si è affermato nel '900 si è via via distaccato da questa visione inclusiva: con le guerre arabo-israeliane, la Nakba palestinese (1948), l’occupazione dei territori ed i conflitti successivi, molti ebrei ed israeliani hanno perso fiducia in quella visione armonica.
In questo senso, “Altneuland” costituisce un mito dimenticato e rimosso, oppure riadattato solo parzialmente; è un esempio pratico di quanto sia potente la narrazione intenzionale nella costruzione del reale, ma anche di come essa possa essere contraddetta o distorta nella pratica politica.
Sebbene la sua narrazione utopica abbia funzionato da guida morale e politica, ha pure contributo a generare tensioni, delusioni e, nelle sue distorsioni, giustificazioni a posteriori per dinamiche ben più escludenti.
Narrazioni mitologiche, quali quelle sviluppate da Bialik o Herzl, hanno sì svolto il ruolo di strumenti identitari formativi che hanno plasmato le politiche del movimento sionista, ma col semplificare una realtà ben più complessa - ignorando le realtà locali, comprese quelle arabe - hanno provocato come conseguenza un processo di colonizzazione che ha generato conflitto e sfollamenti.
Oggi vediamo ognuna delle due parti, il governo di Israele e le organizzazioni arabo-palestinesi, utilizzare miti nazional-religiosi che operano da giustificazione esistenziale per le proprie azioni e rivendicazioni territoriali: così come Bialik cercava di scuotere le comunità ebraiche, in questi anni si sono affermate narrative estremiste da entrambi i lati che cercano di incutere paura, risentimento e di legittimare azioni militari.
L'informazione è utilizzata come arma: social media, immagini di guerra, video e testimonial sono diventati strumenti che veicolano miti (di oppressione, resistenza, martirio e legittima difesa) oscurando, anziché chiarendo, la realtà.
Ovunque nel mondo assistiamo alla diffusione di miti attraverso algoritmi, sorveglianza, deepfake e disinformazione digitali, cosa che rende sempre più difficile distinguere il reale dal narrato: e così entrambe le fazioni nella crisi di Gaza si trovano oggi ad utilizzare strumenti tecnologici per plasmare le percezioni globali, raccontare cause e mascherare conseguenze.
Harari ritiene storie e miti siano infrastrutture cognitive attraverso le quali definiamo noi stessi e gli altri: se da un lato Bialik spinse verso l’autodifesa, dall’altro non ne considerò il costo sugli altri abitanti della Palestina.
In maniera simile oggi i miti, amplificati da tecnologie digitali, definiscono l’ “identità” e la narrazione ufficiale sia israeliana che palestinese.
Il rischio concreto che ne consegue è dunque che la tecnologia stia trasformando queste narrazioni in armi che polarizzino, distruggano spazio per il dialogo, riducano la complessità a slogan, e rendano impossibile una verifica indipendente.
"Ripensare al modo in cui costruiamo e diffondiamo storie" -, scrive Harari - "potrebbe essere parte fondamentale del percorso verso una pace autentica, in medio oriente così come nelle altre parti del mondo dove sono presenti conflitti in corso o latenti".
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